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20 Novembre 2012, 09.00

I racconti del lunedì

Una cosa che comincia per i

di Ezio Gamberini
Prima puntata ...mercoledì 13 agosto, al mattino, ho una leggera fitta al petto che dura un minuto. Non ci faccio troppo caso, mi sembra una cosa passeggera...
 
Nel pomeriggio lo stesso tipo di dolore persiste per due o tre minuti; sarà un’indigestione?
Per fortuna passa e non ci penso più. La notte, verso le tre e mezza, mi sveglio di soprassalto: Dio che dolore, mi sembra di avere una tonnellata che preme sul petto! Decidiamo di andare immediatamente al pronto soccorso dell’ospedale di Gavardo e Grazia si mette al volante.
Accanto, mi sembra di stare un poco meglio, ma non appena giunti in ospedale ricominciano i dolori.

Mi stendono su un lettino e cominciano le “danze”: elettrocardiogramma, prelievo del sangue, applicazione di un piccolo “rubinetto apri e chiudi” in vena (che non mi toglieranno più), mollettina al dito per la frequenza, flebo al braccio e pastiglietta sotto la lingua, da far sciogliere lentamente.
I dolori al petto pian piano cessano e mi “parcheggiano” in un corridoio nell’attesa dei risultati delle analisi.
Poco dopo una dottoressa mi comunica: “Dobbiamo ricoverarla”. Mi conducono in reparto con la barella, al mio fianco c’è Grazia e a me pare di essere il protagonista di un film che vede il mondo esclusivamente attraverso i soffitti: bassi e con forti luci del pronto soccorso, quasi artistici quelli dei corridoi, formati da graziosi e simmetrici moduli metallici di forma quadrata, poi l’ascensore, infine quelli alti e spaziosi del reparto di terapia intensiva.

Mi “trasbordano” sul letto attrezzato, vorrei togliermi le scarpe ed i pantaloni, cerco di alzarmi sul letto per farlo ma sono bloccato: “Lei non ci pensi, facciamo noi, si preoccupi soltanto di sdraiarsi sul letto”.
“Accidenti – penso – sono proprio così grave?”.
Alè, si proceda: mi sono applicati dieci bei cerchietti adesivi su fianchi, pancia e petto ai quali sono collegati altrettanti elettrodi che trasmettono ai monitor le informazioni. Ho anche il televisore personale, che voglio di più?
Nuovo prelievo al braccio destro, mentre in quello sinistro mi applicano una flebo speciale: è un macchinario che centellina i duecentottanta ml di soluzione ad una velocità di dieci ml l’ora. Durerà quindi più di ventiquattro ore?
Poi punturina nella pancia per la circolazione (immagino Eparina), una decina di pastiglie di svariate forme e colori e mezzo bicchierino di gocce. Per qualche ora sono a posto e, naturalmente, assoluto divieto di alzarsi.
 
“Posso almeno sedermi, sul letto, qualche volta?”.
Mi guardano un po’ male, ma capisco che mi sarà concesso. Ora si pone il gran dilemma, considerando che non ho mai affrontato una simile esperienza, se si esclude una notte passata all’ospedale quando avevo diciassette anni, per togliermi le tonsille, ed un’altra degente per un’ingessatura, quando ero quattordicenne: l’uomo è fatto di spirito e carne, passioni ed amori, tenacia ed abnegazione, coraggio e spavalderia, ma in questo mio delicato momento, ciò che più mi preme sono due oggetti proletarissimi: “pappagallo” e “padella” (ed insieme a “Su il sedere!” rivolto dalle infermiere ai pazienti quando li lavano o li cambiano, questi saranno i termini più frequenti ed utilizzati nel reparto e non invece, come si potrebbe arguire,  “dottore” o “farmaco” o “cuore”).

“Ma come – sbotto risentito in direzione delle infermiere perplesse che mi porgono un “pappagallo” (per chi non lo sapesse è un attrezzo di plastica, una specie d’anfora orizzontale con un’apertura verso l’alto, per fare pipì) – esiste soltanto una misura standard, non c’è extra-large?”.

E poi la “padella” in cui, da sdraiati, bisognerebbe svolgere le proprie funzioni corporali (quelle più “consistenti”, diciamo). Non ce la farò mai! Cerco di stringere un patto con Grazia, che mi ha portato un quotidiano da leggere: “Mentre tu cerchi di intrattenere eventuali scocciatori, io, veloce come un fulmine, apro il giornale in un angolino, mi acquatto, espleto, richiudo il giornale, lo infilo in un sacchetto di plastica e poi in un altro, te lo consegno e tu fai finta che sia biancheria sporca, e appena fuori lo infili nel primo cassonetto dell’immondizia che trovi. Eh, che ne dici?” – le annuncio entusiasta.

Mi guarda dritto negli occhi e capisco al volo di aver detto un’idiozia. Non si può fare, mannaggia! Beh, mi arrangerò.

Il mio letto è ad un paio di metri dalla finestra che ne misura circa due in altezza ed uno e mezzo in larghezza; considerando il mio punto d’osservazione quale vertice di un’ipotetica piramide e senza bisogno di complicati calcoli geometrici sapete, stando comodamente seduto sul mio giaciglio, quale superficie di volta celeste posso scrutare? Alcune centinaia di chilometri quadrati di cielo, quando è giorno, ed alcune migliaia di miliardi, quando è notte! In due ore ho potuto scorgere centinaia, migliaia di “quadri” diversi, con cirri e cumuli a rincorrersi dietro i due pini che svettano nel parco. Che spettacolo! E poi ad un certo punto il sole fa capolino ad est e, attraverso i vetri della finestra, con alcuni raggi illumina il crocefisso appeso sulla parete di fronte al mio letto, creando un fantastico gioco di luci. Non capisco quelli che si battono per togliere i crocifissi da ogni luogo; io sono inchiodato ad un letto, temporaneamente (almeno spero), ma Lui è inchiodato ad un legno!

Mi sento sereno e non ho paura di morire; ho una voglia matta di passare un po’ di tempo con mio papà, mio fratello Guido, lo zio don Alberto, il mio amico fraterno Renzo, morto a quattordici anni schiacciato da una macchina, tanti altri amici e parenti che, come dicono gli Alpini: “sono andati avanti”. Ma ho anche voglia di trascorrere con Grazia, dopo esserci spaccati la schiena per il lavoro, la casa ed i figli (e, lo riconosco, lei più di me), un po’ di tempo insieme, io e lei, mano nella mano e “raccontarcela” un po’ (cominciando dal tre settembre con qualche giorno di mare, al ritorno di Paolo da Londra, dopo tre mesi di lavoro, che avverrà il due settembre). E vorrei anche vedere adulti i miei figli, e magari diventare nonno, per verificare ciò che si dice su di loro, che cioè da nonni si diventa “rinco….” nei confronti dei nipoti; da genitori inflessibili e duri, da nonni mielosi ed inermi……bah!

Si avvicina la sera: “Vi prego, lasciate le tapparelle alzate” chiedo all’infermiera, che mi accontenta. Ecco l’imbrunire, i due grandi pini cominciano ad essere percepibili soltanto nei loro contorni, circondati da una gamma incredibile di colori, dai blu sempre più scuri e cupi ai gialli ed arancio che perdono vigore ed esuberanza ad ogni sospiro. Ecco la notte, ed il vento che li scuote con violenza, ma gli aghiformi danno l’impressione di essere soltanto accarezzati, quasi a godere della circostanza.

Intanto litigo con la “padella”, che scruto con occhi severi, ai piedi del letto: “Maledetta, non ti riempirò mai!”. Dormo dalle dieci di sera all’una di notte e poi sto sveglio qualche ora. Ma quante medicine mi hanno somministrato, quanti prelievi in quattordici ore di permanenza in ospedale? Prelievi almeno cinque, un paio di endovenose, due punture nella pancia (nei prossimi giorni, imparata ormai la lezione, a mattina e sera mi presenterò con il pigiama sollevato all’infermiera di turno), una ventina di pasticche e pastigliette, un “bidoncino” di gocce, una flebo perennemente attaccata al braccio, oltre agli elettrodi collegati al monitor che ogni tanto suona a causa di movimenti bruschi che ne provocano il distacco.

Venerdì mattina il cielo è plumbeo, mille tonalità di grigio caratterizzano i panciuti nuvoloni che velocissimi percorrono la porzione di cielo che s’intravede dalla mia finestra (ve ne siete mai accorti dell’incredibile velocità dei nembi? Basta rimirarli per qualche minuto). Soliti prelievi e farmaci, cambio flebo (è proprio durata più di ventiquattro ore, la maledetta), e poi compaiono due angeli vestiti da infermiere (di genere femminile, inequivocabilmente e in questo caso non si discute sul “sesso degli angeli”) che si collocano una alla mia destra e una alla mia sinistra. Improvvisamente (ma è un risolino quello che scorgo sugli angoli delle loro labbra?), con movimento deciso, all’unisono, mi tolgono in un sol colpo pantaloncini corti del pigiama e mutande: “Oh, ohhh!” che mi vogliano violentare?
Prendono invece un catino colmo d’acqua e con una spugna cominciano a lavarmi. Che delicatezza!
E’ incredibile la sensazione di benessere e leggerezza che si prova in questi momenti, dopo aver superato la “vergogna” d’essere nudi. 
Forse il paragone parrà azzardato, ma chissà che non sia così anche in paradiso: dopo essersi “denudati” delle proprie “sozzure” terrene, di se stessi non resta che l’essenza, e l’animo è puro e predisposto alla contemplazione dell’Assoluto.

Estasiato da tanta gentilezza, oso chiedere all’ “angelo” n° 1: “Secondo lei il dottore potrà concedermi una deroga di un minuto per andare in bagno (non mi scarico da tre giorni)? “No assolutamente!” mi risponde, mentre le sue ali s’accorciano di un buon metro, almeno così mi pare.
“Però, se vuole – m’informa con voce celestiale l’ “angelo” n° 2 – si potrebbe fare con la “comoda”. Chiedo alla dottoressa!”. Sì, indubbiamente quel cerchietto color oro che le cinge il capo è proprio un’aureola e brilla come una stella, mentre si avvicina al mio letto spingendo una particolare carrozzella con un buco al centro, appunto la “comoda”, attraverso il quale il paziente, sedutosi, espleta le sue funzioni corporali il cui prodotto si deposita nel contenitore di plastica sottostante. Te l’ho fatta, “padella” di m.

Tratto dal volume: “Ai cinquanta ci sono arrivato” – Ed. Liberedizioni -

Il racconto è del 2008
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