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26 Novembre 2012, 08.50

I racconti del lunedì

Una cosa che comincia per i - Seconda puntata

di Ezio Gamberini
In questo reparto di osservazione intensiva non c'è suddivisione fisica tra maschi e femmine...

... ma ogni letto è perfettamente isolabile attraverso tendaggi scorrevoli su binari tubolari che, applicati al soffitto, attraversano tutto il reparto. Ecco come si ottiene un po’ di privacy in caso di bisogno, ed il personale è sempre disponibile. Credo che queste persone abbiano qualcosa di speciale: si percepisce immediatamente che il loro atteggiamento nei confronti dei pazienti, le loro premure, non sono frutto d’imposizioni dall’alto o eseguiti per forza, bensì spontanei e genuini.

Alle undici il solito giro dei dottori: non c’è dubbio, anche sul loro capo risplende un cerchietto d’oro, ed è un’aureola, perchè mi dicono: “Da oggi, in caso di bisogno, potrà farsi staccare dal monitor e andare in bagno”.
Oh, poter sedere in tutta tranquillità sul “trono” (tralasciando la riservatezza: la sera stessa, mentre espleterò tali necessità, in bagno sarà un via vai continuo di infermiere: “Oh, scusi, devo prendere una “padella”... devo svuotare un “pappagallo”) e finalmente dopo quasi quaranta ore potrò fare due o tre passi. Naturalmente devo portarmi dietro il “trespolo” con il macchinario che centellina la flebo, ma la sensazione è bellissima.

C’è un nonnetto accanto a me, le infermiere lo preparano per la notte, lo cambiano, riassettano il letto e quando per tirare bene il lenzuolo gli coprono il viso, mormorano, con voce allegra: “Baooo – cète!”.
Dopo aver ripiegato il lenzuolo ho visto sul volto del vecchio un’espressione compiaciuta e serena. Ricordo che da bambino, spesso, facevo la pipì nel letto e allora mamma mi cambiava da cima a fondo e sostituiva le lenzuola. Anche lei mi faceva “Baooo – cète!” ed io ho impressa la sensazione di benessere e sicurezza che quella frase mi procurava; l’avevo fatta grossa, ma mamma mi voleva ancora bene, tanto da scherzare amabilmente con me.
Ecco, il viso di quel nonno, stasera, esprimeva le stesse sensazioni ed io credo che abbia affrontato la notte più serenamente.

Nonno Giovanni è proprio un bel personaggio: quasi novantenne, è un furbone di sette cotte, scaltro come una volpe. Dormiva quasi tutto il giorno, o almeno lo dava a credere, forse voleva soltanto preservare le forze e socchiudeva gli occhi, quasi in stand-by. Le infermiere gli dicevano: “Giovanni, ma come fa a dormire tutto il giorno?”. “Io, no, no, io non dormo tutto il giorno!”.
La sera, prima di spegnere le luci, lo mettevano su un fianco e gli raccomandavano di non muoversi: “Non può stare sempre sulla schiena, altrimenti si arrossa la pelle!”. Ma lui, dopo due minuti, tric-tric, si rigirava a pancia in su e cominciava a “ronfare” tranquillo.
Quando verso mezzogiorno arrivava sua figlia per farlo mangiare era una pantomima: “Ho già mangiato!” tentava di barare, e poi, tra un’imprecazione e l’altra, mandava giù due cucchiai di minestra ed una forchettata di verdura cotta; insomma, mangiava come un passerotto. A tutte le infermiere, immancabilmente, chiedeva: “Dove abita?” così, per vezzo. Non muoveva un muscolo ma, si vedeva, quasi esclusivamente per indolenza, e quando gli comunicarono che il giorno successivo l’avrebbero portato in una casa di cura per iniziare la riabilitazione motoria rispose: “Ghe pensarom dumà!” (Ci penseremo domani!).

La seconda notte ho dormito come un ghiro e mi sono completamente assuefatto agli elettrodi, ai cavi ed alla flebo, che mi avvinghiano; accidenti, ma che mi hanno dato? Gocce, mi diranno al mattino, così sto più tranquillo. Però mi vengono somministrate anche di giorno, così continuo a fare pisolini.
Sono diminuiti i “buchi” (due punture nella pancia, una la sera ed una la mattina), ed anche farmaci vari (“soltanto” una decina di pastiglie in tutto il giorno). Mi hanno fatto una lastra e due ecografie che rilevano una “pompa-cuore”  integra e con immutate capacità contrattili (pur con qualche “segno” provocato dalla pressione alta), mentre il cardiogramma evidenzierebbe un’infiammazione alla membrana che però dovrebbe causare uno stato febbrile che io non ho. Insomma, faccio tribolare i medici.

Il primario del reparto, Gian Franco, amico d’infanzia (e le nostre famiglie da generazioni), dopo un paio di giorni di ferie mi viene a visitare circondato da cinque o sei tra medici ed infermiere.
“Buongiorno dottori”, sussurro rispettoso, ma “mi tira” la bocca da ridere, e se ne accorgono.
Ci pensa Gian Franco a sbrogliare la situazione: “Questo...– dice rivolto ai colleghi – questo sembra, sembra... ma è un lazzarone!” ed in quel “lazzarone” c’è racchiuso l’affetto che ci lega e tutti sorridono. “Lunedì ti mandiamo a fare una coronarografia”.

Questo esame consiste in una ricognizione delle coronarie mediante l’introduzione di un sondino o dall’arteria femorale (all’inguine) o da quella radiale (al polso).
Se vengono riscontrate occlusioni si procede all’applicazione di uno stent, un tubicino metallico all’interno del vaso che impedisce allo stesso di richiudersi; si effettua cioè un’angioplastica.
Se invece le coronarie fossero normali e si trattasse di un’infiammazione alla membrana, causata da un virus, sarebbe meno grave, dovendo “soltanto” sfiammarla con un antibiotico.

Lexotan mattina e sera, continuo a sonnecchiare, ed anche la terza notte dormo proprio come un ghiro.
Al mattino c’è il solito giro dei medici e questa volta mi sembra di scorgere addirittura sia un bel paio d’ali, sia una splendente aureola sul capo della benedetta donna che sentenzia: “Via la flebo e via il monitoraggio, sono sufficienti due cardiogrammi al giorno, e domani allora, coronarografia!”.

Senza “lacci e lacciuoli” mi sento rinato, finalmente libero di muovermi secondo la mia volontà (non è facile, per chi non è abituato, chiedere aiuto per chiudere una finestra a due metri da te, oppure farsi porgere un bicchiere appoggiato su un tavolino distante anche solo un metro). Oggi pomeriggio ceretta depilatoria per prepararmi all’esame di domani. Speriamo in bene.

Sono le tredici quando vengono a prelevarmi per condurmi al Civile di Brescia. Sull’ambulanza ci sono l’autista ed un’altra volontaria, una dottoressa ed un’infermiera: “Accidenti, ma sono sempre così affollate le ambulanze?”. “No, normalmente no”, mi rispondono.
E’ la prima volta che vi salgo e sono stupito dalle apparecchiature tecnologiche di cui è dotata. La volontaria mi avvisa di tutte le buche che incontriamo per strada, le conosce a memoria, ed è particolarmente polemica con quelli che hanno progettato i dissuasori, le cunette artificiali che attraversano la carreggiata per scoraggiare l’alta velocità: “Vorrei far salire sull’ambulanza chi li ha inventati, quando c’è un “codice rosso” oppure qualcuno che si è spezzato un osso!”.

Entriamo nel reparto di emodinamica e mi preparano per l’esame. “System starting”, c’è scritto sullo schermo, ma la macchina non parte. Dopo una ventina di minuti mi spostano nella sala attigua; pronti, via, procedono con l’anestesia locale al polso destro ed introducono il sondino.
Prima che arrivi al cuore passa una buona mezz’ora e la cosa per me non è molto simpatica; ad un certo punto mi ritrovo grondante sudore freddo e mi devono asciugare da cima a fondo, mi appoggiano sotto la lingua una pastiglietta piccolissima e poi un’altra ancora, infine una flebo al braccio e sto subito meglio.
Mi applicano uno stent ad un ramo marginale di una coronaria che si era completamente occluso, e dagli schermi osservo il ramo prima dell’occlusione e dopo, grazie al liquido di contrasto iniettatomi in precedenza. Estratto il sondino, il polso viene fasciato e stretto con una specie di cinghiolo.

Mi conducono in reparto, a tarda sera mangio una minestrina e finalmente, poco prima di mezzanotte, un “angelo” viene a sciogliere il cinghiolo al polso ed il sangue ricomincia a scorrere tra le dita della mano: non ne potevo più, un dolore insopportabile! Dormo abbastanza bene ed al mattino, dopo un elettrocardiogramma, mi consegnano un “buono” che dovrò presentare all’autista dell’ambulanza quando verrà a “prelevarmi” per riportarmi all’ospedale di Gavardo, munito di relazione clinica e relative prescrizioni; ora si tratta di “inquadrare” la situazione e coniugare la necessità di tenere la pressione bassa e l’assunzione dei farmaci conseguenti all’applicazione dello stent (per 12/18 mesi Plavix e Cardioaspirina giornaliere saranno obbligatorie).

Alle 11 del mattino comincia il mio viaggio di ritorno, leggero come una piuma. Con lo schienale del lettino un poco rialzato cerco di indovinare la strada che percorriamo: ecco Via San Rocchino, Via XX Settembre, usciamo dalla città, oltrepassiamo Rezzato, imbocchiamo la tangenziale e ne percorriamo qualche chilometro fino all’uscita di Gavardo.
Curva, altra curva... non mi raccapezzo più, ma dove stiamo andando? Passano tre minuti, l’ambulanza accosta e si ferma, l’autista abbassa il finestrino e chiede ad un passante: “Scusi, l’ospedale di Gavardo?”.
Non sono di queste parti, l’avevo capito, ma credevo che almeno per i nosocomi andassero a colpo sicuro. Scopro che i servizi di ambulanza, a certi livelli, vengono appaltati e vince chi offre meno, questa è la logica.

Al mio ritorno vengo ospitato nel reparto di cardiologia. Mio compagno di stanza è un signore settantaduenne, pensionato, mio vicino di casa (abitiamo a trecento metri di distanza) che conosco soltanto di vista. E’ una persona squisita e discreta e nei prossimi giorni la vita in comune sarà piacevolissima.

Ora la degenza è decisamente più sopportabile: ogni cerotto è stato tolto ed anche l’ultimo “rubinetto apri e chiudi” che avevo in vena non c’è più. Dormo molto e quando ascolto l’ mp3 e mi appisolo, l’infermiera si avvicina con passo felpato al letto, mi toglie delicatamente la cuffietta dall’orecchio, infila l’apparecchio per la misurazione della temperatura nel padiglione e quando ha finito introduce nuovamente l’auricolare nell’orecchio, santa donna.
Leggo tre quotidiani al giorno, acquistati in “comproprietà” con il mio vicino; per procurarceli scendiamo la mattina, a turno, al bar dell’ospedale. Mangio volentieri (ovviamente niente pane, e neppure pasta!). Mercoledì pomeriggio Gian Franco si è seduto sul mio letto e mi ha dato qualche “pacca” sulla pancia; “Venerdì tu ed il tuo vicino di letto andate a casa. Con te ci rivediamo fra tre mesi per fare una prova da sforzo.
Fino ad allora soltanto passeggiate, niente corsa, poco stress e riga dritto con la dieta!”. “Si, duce!” vorrei rispondergli, ma mi limito ad un convincente: “Agli ordini!”. Prima che mi addormenti, verso le ventidue, passa un’infermiera ad avvisarmi che da mezzanotte dovrò osservare il digiuno poichè domattina ci sono i prelievi ed un altro esame. Ma benedetta donna, secondo te io dopo mezzanotte scendo a depredare i distributori di cibi e bevande? Estraggo dal comodino e divoro il prosciutto, il grana ed il Chianti fatti portare di nascosto da Grazia? Non sono già abbastanza a “stecchetto”? (sono calato tre chili in sette giorni!). Ovvio che sto a digiuno.

Giovedì mattina ennesimo prelievo di sangue e poi mi porgono un bicchiere pieno di una soluzione zuccherina, veramente orribile da mandar giù.
Storco il naso, ingoio, ma immediatamente me lo riempiono di nuovo: “Giù!” strilla l’essere che mi sta di fronte, il quale ha perso ogni sembianza angelica, anzi, è brutta ed antipatica e in aggiunta puzza di zolfo. E’ per la prova del diabete, fra due ore mi faranno un nuovo prelievo per la verifica della curva glicemica. Bleah! Per due ore mi rimarrà tutto sullo stomaco, fino al momento della colazione.
Prova della pressione (120-70, ottima) e poi nuovo cardiogramma. Ormai faccio il turista, dormo, mangio e leggo; per fortuna venerdì alle 11 vengo dimesso e ritorno a casa, dopo nove giorni. Ora dovrò riposare, curarmi e rimettermi in salute.

Per nove giorni, a casa, tutto è filato liscio; ciò che mi è successo al decimo non avrei mai potuto neppure immaginarlo...

Tratto dal volume: “Ai cinquanta ci sono arrivato” – Ed. Liberedizioni -

Il racconto è del 2008
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