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03 Dicembre 2012, 09.40

I racconti del lunedì

Una cosa che comincia per i - Terza puntata

di Ezio Gamberini
Lunedì 1 settembre, decimo giorno trascorso a casa dopo essere stato dimesso dall'ospedale, sono sveglio da mezz'ora, ho appena finito la colazione ed assunto la mia dose mattutina di farmaci...
 
... Mi siedo sul divano e capisco subito che qualcosa non funziona. Ho un dolore al petto atroce, ancora più lancinante di quello avvertito il 14 agosto: “Chiama il 118!” dico a Grazia.
Il dolore aumenta, sudo freddo, prendo un asciugamano e mi risiedo, ansimando. Scende anche Anna e cominciano a preparare il necessario per l’ospedale.
Grazia mi stringe le guance tra le sue mani e con voce strozzata mi dice: “Ezio, Ezio!”. Sento che sto perdendo i sensi, cerco di rincuorarla almeno con gli occhi.

Ciò che descrivo me lo hanno narrato in seguito. Grazia mi ha steso sul pavimento, ha richiamato il 118 e mentre la coraggiosissima Annina teneva la cornetta del telefono appiccicata al suo orecchio, seguendo le istruzioni di una dottoressa mi ha praticato il massaggio cardiaco.
Pochi minuti dopo è arrivata l’ambulanza ed è iniziato il viaggio per condurmi all’ospedale di Gavardo, con la sirena che suonava all’impazzata. Al nosocomio, dove resto pochi minuti, ho un arresto cardiaco, subito ripreso dai medici.
Vengo intubato e spedito al Civile di Brescia, in rianimazione. Grazia intanto ha caricato sulla macchina Anna e Chiara e si è diretta prima a Gavardo e, dopo aver appreso la notizia del trasferimento, a Brescia.
A metà mattina vengo portato in emodinamica per una coronarografia: incredibilmente si è richiuso lo stent che mi avevano applicato il 18 agosto: “Capita” mi diranno poi.
Lo riaprono e mi riportano in rianimazione mentre una dottoressa comunica a Grazia che “Bisognerà vedere come si sveglia e valutare i danni al cervello che può aver provocato l’arresto cardiaco”.
Grazia sbianca, poverina. Grazia, povera Grazia e povere figlie mie, quello che dovete aver passato.

Fortunatamente il cervello è integro e mi risveglierò a sera così “conciato”: maschera di ossigeno sulla faccia, catetere in vescica, dieci elettrodi al petto collegati ai monitor, mollettina all’indice per la frequenza, flebo al braccio sinistro più un “rubinetto apri e chiudi” (che terrò fino alla dimissione), altre due “farfalline” nel braccio destro… così mi vedranno i miei dal monitor (una telecamera scende dal soffitto e riprende ognuno dei tre letti che occupano la rianimazione cardiologica).

La notte un infermiere mi comunica: “Dovremmo farle un’iniezione di morfina….  col suo peso non sarà un problema sopportarla bene”.
“E che mi frega – rispondo, cercando di sdrammatizzare e con la voglia di scherzare – da vent’anni sono socio e consigliere della Cooperativa Ai Rucc e dintorni, che si occupa del recupero di tossicodipendenti…fate pure, fate pure…” così mi risveglio al mattino.
Sembra che in quel reparto sia riunita un‘assemblea straordinaria di miei compaesani: un infermiere mi chiede: “Ma tu non sei di Vobarno?”.
Certo! Ora lo riconosco, è uno dei figli di Dante.
Con l’ingombro della maschera di ossigeno, che mi impedisce di parlare chiaramente, gli ricordo di aver dedicato un capitolo a suo padre, nel libro che ho pubblicato in aprile (Tapascio Bombatus e altre storie – Diario di un maratoneta).
Un’altra infermiera, pure compaesana, che conosco soltanto di vista, è invece sorella di una nostra cara amica; il mondo è proprio piccolo!
Martedì mattina viene a trovarmi l’amico Mario, fratello di Gian Franco, che fa il chirurgo proprio al Civile di Brescia, e scambiamo qualche parola, mentre i miei sono fuori che aspettano, rinfrancati dopo avermi visto bello sveglio ed arzillo al monitor (con Mario siamo amici d’infanzia, durante la mia degenza verrà a trovarmi quasi tutti i giorni, non so come ringraziarlo).

A mezzogiorno di martedì mi spostano in terapia intensiva; in corridoio, mentre mi trasportano, rivedo finalmente Grazia e le ragazze ed è un sollievo. Paolo prenderà l’aereo oggi pomeriggio da Londra, già prenotato da tre mesi, per far ritorno a casa; non ce la siamo sentita di comunicargli quanto mi è accaduto, l’avremmo fatto star male inutilmente e soltanto questa sera Grazia lo informerà con calma (Non appena entrato in casa, quasi a “fiutare” gli avvenimenti, esclamerà: “Dov’è il papà?”).

In terapia intensiva mi assegnano un letto vicino alla finestra, il che mi infonde una serenità speciale. Anche qui, come a Gavardo, non c’è separazione tra maschi e femmine; con tende mobili, attraverso le guide fissate al soffitto, ogni letto è isolabile dagli altri. Nel grande salone, otto posti più quattro in una sala attigua, tutti i letti sono dotati di macchinari tecnologicamente avanzatissimi: attraverso l’utilizzo di elettrodi collegati tramite dei cavi al computer ed al monitor ogni evento è registrato, secondo per secondo, e qualsiasi alterazione è segnalata da squilli e sirene.
Addirittura non esiste campanello per chiamare gli infermieri poichè essi sono sempre visibili dietro ad un grande bancone centrale, dal quale la visuale spazia su tutti i pazienti con il controllo assoluto della situazione.

Mi riprendo pian piano e la sera mangio due cucchiai di minestrina. Al mio fianco c’è un’anziana signora di origine bolognese; quando parla è uguale spiaccicata a mia zia Dirce di Altedo e mi entra subito in simpatia.
Sta affrontando un vero calvario e soffre terribilmente: non assaggia cibo da venti giorni, è diabetica, non può bere (centinaia di volte nei prossimi giorni la sentirò supplicare: “Un goccio d’acqua, un goccio d’acqua per bagnarmi le labbra!”, richiamando alla mia mente l’immagine del ricco Epulone che dal fuoco eterno implora Lazzaro); è continuamente sottoposta a flebo, una sacca enorme, e per la maggior parte della giornata è attaccata ad una macchina che le purifica il sangue.

La notte dormo molto male sia per il via-vai continuo dalla mia vicina, sia per i cavi ed il catetere in vescica, veramente insopportabile. E poi sento un nuovo dolore alla gamba destra ed all’inguine, mi tocco e scopro che per riaprirmi lo stent questa volta sono saliti dall’arteria femorale. Ma ormai non  faccio caso a nulla, mi sembra di avere acquisito una certa tranquillità che mi porta ad accettare tutto quello che mi sta capitando.

Mercoledì mattina, dopo avermi sollevato lo schienale del letto per farmi la barba, ho sentito una fitta al petto, dolorosissima. Ero terrorizzato, che mi stava succedendo? Sono intervenuti subito gli infermieri che con un “quartino” di nitrato in vena hanno risolto il problema, ma in seguito la cosa si ripeterà ogni 12-14 ore.
Lo spasmo dura soltanto due o tre minuti, ma nei prossimi giorni i medici decideranno di sottopormi ad un’altra ispezione alle coronarie per verificare che non ci siano altre occlusioni.

Anche stamattina, così come ieri, viene a salutarci fra’ Fabio, un “frate minore” così magro da “nuotare” nel saio, simpatico e solare, che non arriva alla quarantina; ha occhi grandi e certe orecchie a sventola che gli conferiscono un aspetto amichevole e confidenziale. Alla radio stanno trasmettendo una canzone di Vasco Rossi ed un infermiere gli chiede. “Te la ricordi, fra’ Fabio?”. “Come no? Avrò avuto quindici anni...” e tra i sorrisi colgo dalla sua espressione sentimenti che oscillano tra una struggente nostalgia ed un’appassionata voglia di vivere.

Mi piace ascoltare gli infermieri che parlano tra loro, si fanno confidenze: i figli, la casa, le gomme della macchina scoppiate perchè hanno urtato un marciapiede con i bordi taglienti, la palestra in Via M. che è davvero uno schianto, l’ultimo libro in classifica, l’anziana mamma che ha aperto ad un tipo distinto che voleva controllare le bollette dell’Enel, “Mamma, è un ‘bidone’!”.
Sembra, per qualche attimo, di non essere in ospedale, ma di trascorrere amabilmente del tempo in piazza, tra amici. E poi, se il lavoro è per l’uomo e non il contrario, mi affascina pensare che ognuno, nel suo ambiente professionale, in fabbrica o in ufficio, possa essere considerato non un numero, ma disvelarsi come “persona” nella sua interezza, con tutto il suo bagaglio costituito da capacità e passioni, competenze e professionalità, ma pure debolezze  e fragilità.

Altra depilazione e domani, venerdì, digiuno e poi in emodinamica per il nuovo esame alle coronarie.
Sono agitato: non ho un buon ricordo della prima fatta in agosto e poi questa notte è davvero da incubo perchè la mia vicina sta malissimo.
Ieri sera, dopo aver ricevuto la visita dei suoi parenti, con suo marito seduto amorevolmente accanto al letto accarezzandole dolcemente il braccio per un’ora intera (ho scoperto che è cieco!), l’ho sentita mormorare per la prima volta, sfinita: “Spero che muoia!”.
Non ha detto: “Spero di morire”, ha proprio sussurrato “Spero che muoia”, con riferimento alla terza persona singolare e non la prima, mi piace immaginare: “Lei, l’altra”, la parte di lei incatenata alle macchine, incapace di mangiare e bere, dal corpo corrotto, non quella integra e bella e vivace e pulsante di un tempo.

Alle cinque e mezza, poco prima che albeggi, le tende che ci separano vengono accostate quietamente, spente le macchine, tutto è silenzio.
Non riesco a trattenere le lacrime. E’ la seconda volta nella mia vita che assisto alla morte di una persona, dopo quella di mio padre, avvenuta più di vent’anni fa, quando gli fummo accanto tenendolo per mano nel momento in cui se ne andò.
Dopo tre giorni di agonia che ho vissuto minuto per minuto, fianco a fianco, è finito il tormento. Dio, ma quanto è difficile anche morire! Quanti lamenti, quante richieste di aiuto sussurrate talvolta a bassa voce, per cui mi facevo latore, chiamando le infermiere.
E quante volte, non appaia irriguardoso nei suoi confronti, suscitando ilarità minacciava di disubbidire quando, inascoltata, esclamava con voce minacciosa: “Posso drizzare la schiena? Ora mi drizzo... adesso mi alzo, eh?” ed allora sorridendo le infermiere si avvicinavano e le prestavano attenzione.
 
Ciao Marna, buon viaggio.
Che sia lieve e prima di arrivare lassù che ti sia permesso di attraversare un paesaggio in cui scorrono fiumi di miele e cioccolato, nei quali ti sia possibile intingere il dito per saziartene, finalmente libera da impedimenti, e poi sotto una cascata, con le mani appoggiate alla roccia e la bocca spalancata, tu possa dissetarti senza fine.

Tratto dal volume: “Ai cinquanta ci sono arrivato” – Ed. Liberedizioni -

Il racconto è del 2008
 
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