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24 Ottobre 2011, 08.29

I racconti del lunedì

Albània - Seconda Puntata

di Ezio Gamberini
Martedì. Sta albeggiando quando la mattina gironzoliamo sul ponte più alto e, pur non essendo ancora chiaro, abbiamo già cominciato a tormentare Ezio...
...che, bussando alla porta dei due preti, ha provocato la caduta di Don Gianfranco il quale, volendo aprire in fretta, nello scendere dal letto più alto ha fatto un volo e si è stirato un muscolo della spalla.
Verso le sette si scorgono nitidamente le coste albanesi e pian piano Durazzo diventa sempre più riconoscibile, con i palazzoni in costruzione affacciati sul mare.
Attracchiamo alle otto e dopo mezz’oretta ci troviamo nel porto attorniati da una miriade di bambini, ragazzi, signore ed adulti, che vendono sigarette e chiedono soldi.
 
Un signore piuttosto anziano, sigaretta all’angolo della bocca e mani in tasca, si avvicina ed implora: “Cinque figli, un euro!”.
Sono incuriosito dall’affermazione: me li vende? Ne ho già tre e con un solo euro potrei arrivare ad otto!
Gli chiedo perché non smette di fumare, per risparmiare qualche soldo.
Non l’avessi mai detto! Scoprirò in seguito che in Albania praticamente fumano tutti i maschi, da una certa età in poi; il non farlo denuncia la mancanza di virilità.
“Ma non lavori?”. Resta un po’ interdetto e dopo qualche istante mi dice: “Firma persona!” (ho un’impresa individuale!). “E cosa fai?”. Mimando il gesto di afferrare qualche cosa da terra afferma: “Porto le valigie”.
 
Finalmente arriva Filippo, rappresentante della Caritas locale, che si occuperà di tutte le procedure burocratiche per lo sdogananento.
Gran pacche sulle spalle, abbracci e saluti a tutti, sorrisi e battute. Sembra il padrone del porto.
Chissà perché mi sorge spontaneo il paragone con l’Azzeccagarbugli, ma ripensandoci, senza il buon Filippo saremmo ancora al porto.
Ad aspettarci c’è anche Luigi, giovane albanese autista di Padre Cristoforo, l’amministratore apostolico della diocesi di Rreshen.
 
Dovremo sdoganare in una città vicina, Lesha, costretti ad allungare il viaggio di qualche ora. Io mi metto alla guida del furgone, Piere del Galloper, con Don Marco, mentre Don Gianfranco sale sul Pajero condotto da Luigi.
Verso le tredici riusciamo a terminare le operazioni di sdoganamento.
D’accordo con gli altri, intanto che sbrigavano le pratiche, Ezio ed io avremmo aspettato un poco più avanti, sul ciglio della strada.
Ecco che arriva alle nostre spalle un Pajero che strombazza più volte. Via, ingrano la marcia e lo seguo. Come fila! Dopo un paio di chilometri stranamente svolta a sinistra ed imbocca una strada stretta, con noi alle costole, fermandosi dopo una ventina di metri.
Siamo bloccati in mezzo alla strada, Nene scende per cantargliene quattro. A due metri dalla macchina si blocca, torna indietro e mi dice: “Non sono loro!”. “Come non sono loro?”, strillo sbigottito.
 
Dopo qualche istante arriva Pierenzo e si ferma sulla strada principale. Dietro di lui il Pajero con Luigi e Don Gianfranco.
Cominciamo a ridere e non smettiamo più! Le fuoristrada erano identiche, ma Piere puntualizza: “Non hai visto che le targhe erano diverse? RT e non MT!”. “E secondo te, in terra straniera, con due macchine identiche io guardo le lettere della targa?
E poi hanno salutato e Nene mi ha detto di aver visto un maglione rosso, come quello di Don Gianfranco, quindi la colpa è da dividere tra noi due del furgone, a me non più del 30%!”, controbatto.
Ma i cani rincarano la dose: “E se andava a Valona lo seguivi fin là?” e giù a sganasciarsi dalle risate alle mie spalle. Dopo la “telefonata” tra Pierenzo e Don Marco, questo sarà il secondo argomento trattato, per l’intera settimana.
 
Alle 14 e 30 giungiamo finalmente a Rreshen. La casa della diocesi, un palazzo di sette piani costruito dal regime alla fine degli anni ottanta, doveva essere un hotel con tutti i comfort, invece non venne mai neanche inaugurato.
Dopo la caduta di Hoxha, di questo palazzo si occuperà la congregazione di San Vincenzo de’ Paoli. Al suo fianco sorge la nuovissima cattedrale, donata dalla diocesi di Bologna, che sarà inaugurata sabato dal cardinale Crescenzio Sepe, quando noi saremo già sulla nave per ritornare a casa.
Ci accoglie il vincenziano Padre Cristoforo, leccese, amministratore apostolico della diocesi di Rreshen, invitandoci alla tavola apparecchiata. Arriva con una teglia fumante Padre Lino, simpaticissimo e loquace.
 
Dopo aver sentito l’accento Ezio gli chiede: “Lei è romano?”. “Io so’ laziale, de Rieti!” lo fulmina l’anziano prete, calcando l’accento sul ‘laziale’.
Scopriremo che quando la Lazio vinse lo scudetto fece pazzie. Poco dopo giunge Alessandro, ventenne di Tirana squisito e gradevolissimo, che ci accompagnerà per tutta la settimana.
E’ stato per quattro anni in seminario e conosce bene Don Gianfranco perché lo ha aiutato nei quindici giorni di permanenza in Albania, quest’estate, quando i due missionari organizzarono un grest per i ragazzi di Fan Klos, sui monti della Mirdita, dove ci recheremo appena finito di pranzare.
C’erano anche alcuni ragazzi volontari bresciani, per cui Alessandro, oltre che conoscere l’italiano, ha imparato qualche parola in dialetto.
Si presenta con: “Alura?” (allora?). Io gli insegnerò: “Nom!” (andiamo!), così nei prossimi giorni risuonerà spesso un “Alura? Nom!” che con l’accento di Tirana fa morir dal ridere.
 
Fra poco sarà buio, parcheggiamo il furgone carico in garage e partiamo noi cinque più Alessandro, tutti sul Galloper già ricolmo di borse e scatole per raggiungere la casa delle suore di Fan, della congregazione di Santa Giovanna Antida Thouret. Imbocchiamo la strada che porta in Kossovo e per due ore, tante ce ne vogliono per percorrere quarantacinque chilometri in montagna, saranno solo buche e curve.
Sono quasi le sei di sera quando arriviamo alla casa delle suore. Siamo accolti festosamente da suor Rosella, milanese, sorridente e solare, suor Franca, il cui accento manifesta origini del centro Italia, ed infine suor Maria Grazia, una siciliana minuta e dolcissima, che più tardi, preparando la tavola per la cena comune, dirà: “Mettiamo i tovaglioli nei bicchieri, che ‘fa’ festa!”.
 
Come non riconoscere l’eroicità di queste donne?
La casa in cui risiedono è abbastanza grande: c’è posto per l’asilo, che ospita circa venticinque bambini ed un altro salone in cui suor Franca insegna cucito ad una quindicina di ragazze.
Quest’ultima, appena entrati nell’abitazione, apre la porta di una stanzetta mormorando: “Qui c’è il ‘padrone di casa’ ”. Su un tavolinetto che funge da altare è appoggiato un piccolo crocifisso: la loro chiesetta!
 
Don Marco indossa i paramenti sacri (la spalla di Don Gianfranco è stata temporaneamente vincolata con un foulard legato al collo) e celebra una messa, con gli altri otto in cerchio attorno all’altarino, che ne vale almeno una ventina di quelle nostrane, tanto da ritenermi moralmente esentato dal precetto per i prossimi sei mesi.
Non c’era neve, ma son certo che il ‘calore’ sprigionato da quella stanzetta l’avrebbe sciolta tutta!
Ceniamo insieme, ed è una festa, con i due missionari a raccontare i quindici giorni passati in estate qui a Fan, con i ragazzi e le suore.
Per tutti, e per ognuno, c’è un ricordo, una richiesta d’informazioni.
Domani ne incontreremo parecchi. Sono curioso di conoscere Conti, Gentile e Giannini, tre fratelli dai quattordici ai diciotto anni, chiamati in questo modo da un padre il cui sport preferito è facilmente intuibile (non è un soprannome, li ha chiamati proprio così!) e poi Erion, furbo come una volpe, ma simpaticissimo, ed ancora Miri, Pavlin, Fation, tutti con le loro curiose particolarità e qualità.
 
Per dormire ci spostiamo in canonica, duecento metri più in basso.
Questo edificio, vicino alla scuola e alla chiesa, accanto al fiume, era stato donato da un prete austriaco, evidentemente molto facoltoso, il quale pensò di dotarla di un enorme forno elettrico per la produzione di pane che nelle intenzioni doveva servire tutto il villaggio. Sfortunatamente la produzione e la fornitura d’energia elettrica sono così approssimative, vaghe ed indefinite, da averne consigliato la rottamazione, dopo anni d’inutilizzo.
Naturalmente non esiste riscaldamento, e fuori si gela. In una stanza si sistemano i due preti, mentre nell’altra, che dispone di quattro letti a castello, Ezio comincia ad appoggiare lo zaino su una cuccetta, il cappello su un’altra, la giacca a vento sul terzo letto, il sacco a pelo su un altro ancora ed infine si siede sull’ultimo giaciglio rimasto libero a piano terra. Insomma, posando la sua roba un po’ qua e un po’ là ha occupato tutti i letti.
 
Piere, Alessandro ed io ci guardiamo negli occhi e gli diciamo: “Scusi, di grazia, e noi dove dormiamo?”.
Prendiamo tutta la sua roba e la buttiamo fuori dalla stanza, e dopo aver scelto dove riposare gli concediamo di infilarsi al calduccio, non prima di avergli permesso di massaggiare la spalla di Don Gianfranco, il quale sta decisamente meglio.
 
“Hai da leggere?” mi chiede Nene. “Certo. Mi son portato due libri, uno leggero e uno impegnato.
A te do quello leggero” e gli porgo ‘Le confessioni’ di Sant’Agostino.
“Io mi leggo ‘Il compagno Don Camillo’”, gli dico candidamente.
Non arriva a pagina quattro, ma forse neppure alla quarta parola, perché in due nanosecondi comincia a ronfare. Siamo già sotto le coperte. Prendo una ciabatta e gliela picchio su una cosa lucida, che reputo il braccio, invece si tratta della zucca.
Che posso farci se Nene ed i suoi capelli si sono ormai lasciati da tempo immemorabile?
 
Tratto dal volume “Tapascio Bombatus e altre storie” - Ed. Liberedizioni
 
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