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07 Aprile 2014, 09.01

Racconti del Lunedì

Vai figliolo, vai

di Ezio Gamberini
Quando andò in pensione, io avevo sedici anni e mio padre cinquantaquattro. Proprio quelli che compirò tra qualche mese!

Non era di quelli che si mettono a riordinare la cantina, o il solaio, dopo aver abbandonato per sempre il lavoro.
Conosco alcuni che nei primi sei mesi di pensione hanno ribaltato quattro volte la disposizione dei loro scantinati, sistemando tutto in perfetto ordine con certosina pazienza (qual è il problema, non devi più timbrare, ormai!).

Papà invece, finalmente, cominciò a leggere anche di giorno, dopo averlo fatto di notte per tutta la sua vita lavorativa.
E’ incredibile come riuscisse a leggere continuamente per ore, nel cuore della notte, magari interrompendo la lettura qualche minuto per farsi due “fedelini” in bianco, dormire due o tre ore e poi presentarsi in ufficio puntualissimo alle otto, poco prima che suonasse l’ultima sirena della “Falck”.

Finalmente libero dai vincoli, ai libri alternava l’ascolto delle opere (Verdi, soprattutto) e di musica sinfonica. Anche mia madre, seduta sul divano a leggere o sferruzzare, era costretta ad ascoltare, ma non ricordo insofferenza o irritazione, pur non essendole particolarmente attraenti; credo però che si siano fatti ottima compagnia.

Un paio di anni dopo aver abbandonato il lavoro, papà decise di iscriversi a un corso serale sull’alimentazione, che si teneva a Vestone.
Un’oretta prima preparava diligentemente i libri di testo, controllava penna e matita con il relativo block notes per gli appunti, e poi dava inizio alla “operazione viaggio”.
Per papà, che aveva preso la patente a quarant’anni suonati, il solo mettersi al volante rappresentava un’impresa!
Da poco aveva acquistato una nuovissima e superlussuosa Fiat 126 Personal 4 di colore celeste, la stessa che utilizzerò pochi anni dopo, nel 1981, in occasione del mio matrimonio: con la fiammante “spider” andai a “prelevare” Grazia sotto casa sua, scandalizzando i parenti, per aver sovvertito ogni formale consuetudine che vuole lo sposo immobile come un baccalà sul sagrato della chiesa ad attendere la sua sposa.
Come ci restarono, quando ci videro arrivare insieme, trasportati dalla turchina Fiat 126 abbellita da un cesto di fiori bianchi appoggiati sul cruscotto posteriore!

Una sera in cui sembrava che dovesse arrivare la fine del mondo, tanto pioveva e tuonava, mi preoccupai del fatto che papà si fosse recato a Vestone per la consueta lezione.
Il pensiero che potesse trovarsi in difficoltà m’indusse a prendere la Cinquecento L e imboccare la provinciale. Lo attesi a Nozza, sul rettilineo, per poterlo vedere meglio, e quando lo avvistai, lo lasciai transitare e mi accodai immediatamente.
Dopo averlo accostato, lo superai e quando gli fui davanti, rallentai l’andatura. Capii che mi aveva riconosciuto, e in questa “formazione”, mentre l’uragano continuava a imperversare sull’intera Valle Sabbia, raggiungemmo casa.

Le feste che non mi fece, quando oltrepassammo la porta d’entrata, dopo un’ultima corsa sotto l’ombrello che non riusciva a ripararci dalla tempesta! Mi disse che aveva una paura tremenda, ed era terrorizzato dall’idea di dover guidare in mezzo alla bufera. Ma poi si decise e partì.
Quando mi vide superarlo e dispormi davanti a lui, quale “guardia del corpo”, mi confessò che provò una gioia immensa e una serenità infinita: c’ero io, ogni preoccupazione era fugata. Saremmo potuti andare in capo al mondo.

Io restai impressionato da questa reazione, che mi fece un enorme piacere: essere stato così utile a papà mi rese davvero felice.
Trentasei anni dopo, giovedì sera di un tiepido marzolino, al termine di un inverno mai percepito così mite in tutta la mia vita; non appena terminato il lavoro indosso tuta e scarpe e mi avvio sul sentiero che costeggia il fiume. Abbiamo ricominciato a passeggiare e corricchiare, con Grazia, ma lei stasera non c’è perché deve partecipare a un corso.
C’è ancora chiaro, ma durerà poco.

Alterno passo e corsetta, arrivo al ponte di Clibbio quando è già buio pesto e mi accingo a ritornare. Percorro alcune centinaia di metri, a disagio. Non so cosa mi succeda: le tenebre mi paiono sempre più lugubri e cupe, c’è un silenzio innaturale; riesco a percepire i rumori del bosco, e una cornacchia si alza in volo, all’improvviso, e mi ritrovo contro la mia volontà a spiccare un salto.
Che paura! Si leva un po’ di vento, all’inizio brezza leggera, ma in breve, sempre più minacciose,  le raffiche si trasformano in tetri lamenti che scuotono le cime degli alberi, con foga impetuosa: “Ssssshhhhhhh”, sembrano volermi zittire, incutendomi soggezione! 

Comincio ad aumentare il ritmo
, voglio uscire dalla “Bosca” e arrivare in paese il più presto possibile.
Scorgo pericoli in ogni direzione e ora mi sembra di sentire dei rumori in lontananza, alle mie spalle. Mi persuado che qualcuno mi stia inseguendo, la falcata è poderosa e i passi sempre più veloci e pesanti mordono e corrodono la terra battuta: sono terrorizzato!
Ora ho il cuore in gola e il ritmo è pazzesco, per le mie possibilità; certo, l’andatura non sarà come quella dell’amico Enzo che, quasi quarant’anni fa, a tarda sera, percorse le poche centinaia di metri che separavano il cinema Giardino dalla sua abitazione, vicino all’ingresso della Falck, in una manciata di secondi, dopo aver visto il film giallo-horror di Pupi Avati con Lino Capolicchio quale protagonista,  “La casa dalle finestre che ridono”. 

Non ho più scampo, ormai è a pochi metri, mi raggiunge…eccolo: “Ciao papy!”. E' mio figlio Paolo! Dopo aver corso la sua prima mezza maratona poche settimane fa, anche lui si sta allenando al buio. Le tenebre svaniscono all’improvviso, anzi, sembra che sia uscito il sole. “Non ho tempo di fermarmi, ciaooooo!” e fila via come un razzo.

Vai figliolo, vai. Grazie per avermi “salvato” dalle mie paure.
Ora, solo ora capisco perfettamente cosa provò mio padre quando lo raggiunsi quella sera durante la bufera, e lo scortai fino a casa.
Sono certo di sperimentare le medesime sensazioni, e tutto ciò è molto bello e mi conforta.

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