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18 Febbraio 2013, 09.20

I racconti del lunedì

Dieci giorni nella terra delle aquile - sette

di Ezio Gamberini
Martedì 18 agosto - Lo sbarco degli italiani in Albania. In sala è stata preparata una tavolata per il nostro gruppo. Quando arriva Paolo lo prendiamo un po' in giro: "Non più di cinque fette di pane e burro, va bene?"...
 
... “Va bene!” risponde la nostra “mascotte”. Paolo possiede una simpatia, un’intelligenza ed un’arguzia straordinarie: è un bel bambino con occhi vispi e scuri e capelli nerissimi, viso rubicondo e sguardo solare, statura alta, per i suoi nove anni, e “rotondetto”, molto “rotondetto”.
Paolo non è un mangione, è un buongustaio, gli piace tutto, disdegna solo le banane e l’unica cosa alla quale non rinuncerebbe mai per una partita a biliardino o due tiri a pallone è un panino.

Genti ha prenotato una barca, perchè andremo a fare il bagno in una spiaggetta più a sud, a sette o otto chilometri di distanza che percorreremo in meno di un’ora.
Carichiamo le nostre borse e ci disponiamo sull’imbarcazione con particolare attenzione alla disposizione dei “tolombaz” presenti (in pratica tutti i maschi fuorché Mario, che può mettersi dove vuole senza incidere più di tanto sulla navigazione), quindi Serafino ed Ezio da una parte, Alberto e Piere dall’altra, mentre io cerco di stare in centro alla prua, con Michele che si è steso a prendere il sole, così come le ragazze.
 
Le femmine sono quasi tutte a poppa.
Poiché pare di trovarsi a Montecarlo, e man mano che ci si allontana dalla città sempre più la sensazione è netta, anche sulla barca, trasformata idealmente in yacht, ci sembra di essere dei vip.
“Io sono Brooke!”dice Antonella, “E io Karen!” aggiunge Cristina. Luisa e Chiara sono ovviamente le “Veline”, una mora e l’altra bionda, Ezio è “George” e Fino “Silvio”.
“Scusa, non puoi farmi Monica Bellucci per qualche giorno?” chiedo a Grazia, non prima di essermi assicurato di essere a due o tre metri di distanza, per evitare “pappine” a bordo (ah, Monica Bellucci, se sapesse anche recitare...). “Però va bene anche Sabrina Ferilli”, aggiungo, sempre a debita distanza...

Il nostro arrivo alla piccola insenatura è comico.
A pochi metri dalla spiaggia dobbiamo sbarcare, ed è un “cinema”: sulla riva ci sono alcune decine di turisti che ci guardano e alcuni scattano pure qualche foto.
Sbellicandosi dalle risate si danno gran pacche sulle spalle, mentre noi sembriamo esuli derelitti, con le borse sopra la testa, in difficoltà a causa del fondo sassoso. Somigliamo a dei marziani. Scendendo dalla scaletta, Serafino, che ha il terrore dell’acqua, perde la presa e sprofonda in mare, vestito e con gli occhiali.
Ezio lo guarda, comincia a ridere e non smette più: “Mi guardava dal fondo con i suoi occhioni imploranti... e indossava anche gli occhiali!”, racconterà in seguito Nene, ogni volta senza riuscire a trattenere uno scoppio di riso. In quel momento io gli sono dietro, lo prendo sotto le spalle e lo sollevo: “Tranquillo, tranquillo, che tocchi”.

Io credo che quel “cane” di barcaiolo ci abbia giocato uno scherzo, volendo godersela alle nostre spalle, nel momento in cui ci diceva che era impossibile avvicinarsi di più alla spiaggia.
Quando il gruppo è ricostituito decidiamo di spostarci in una “caletta” a duecento metri, raggiungibile seguendo la costa che in un punto è a ridosso della roccia.
Poco dopo giungono anche altri turisti, che evidentemente hanno avuto la nostra stessa idea, oppure avranno pensato: “Oh, quei deficienti di italiani sono andati di là. Seguiamoli, che c’è da ridere!”. Un signore albanese, che passeggia sulla riva, si ferma davanti a Cristina e le chiede: “Da dove venite?”. “Da Saranda”.
“E non potevate percorrere la strada qui dietro?”. Cristina gli risponde che non avevamo le macchine. “Lo sa che eravamo noi albanesi a sbarcare in quel modo sulle vostre coste, gettati in acqua dalle barche in corsa?” conclude con un risolino il villeggiante.

Paolo non perde un secondo e si fionda in acqua. Ne uscirà soltanto quando faremo ritorno. Il mare è meraviglioso e lo godiamo interamente, mentre Serafino sale sulla collina per visitare un monastero. Alle tredici viene a riprenderci la barca, e quel maledetto si ferma ancora più lontano dalla riva: questa volta non si tocca neppure, e la scaletta per salire si trova a poppa, in direzione del mare aperto!
Cominciano le operazioni d’imbarco, a riva c’è un capannello di turisti in trepida attesa. Precedenza agli zaini, poi sale per primo chi sa nuotare. Marica dapprima è titubante, poi, siccome è un'ottima nuotatrice, raggiunge in tre bracciate la scaletta.
Chi più e chi con meno fatica raggiunge la meta; l’ultimo a salire è Serafino, che verrà accompagnato alla scaletta sostenuto dal salvagente di bordo. Che impresa!

Svelti, perchè il mare di pomeriggio s’increspa, cresce la marea e si balla un po’. In effetti, faremo qualche bel salto tra le onde, qualcuno si preoccupa e qualcun altro accusa un po’ di nausea.
Paolo ha un problema: “Mamma, mi scappa la pipì!”. E dove gliela facciamo fare? Non a prua, perchè altrimenti finisce come con Michele il quale, con noncuranza, dopo aver finito di fumare, getta la “cicca” che finisce, accesa, sulla schiena di suo papà Pierenzo, che siede a poppa.
“Facciamogliela fare in un contenitore” propone qualcuno, così, afferrata una bottiglietta di acqua minerale da mezzo litro, mentre Marica con un asciugamano preserva la sua privacy, Paolo espleta le sue necessità.
Quando consegna alla sua mamma il prodotto finito, scoppia un riso fragoroso che dura cinque minuti: l’ha quasi riempita (mancava soltanto un dito)! Attracchiamo al porto, senza alcun problema, e raggiungiamo l’hotel per rimetterci in ordine.

Dopo aver mangiato un po’ di frutta e qualche pannocchia di mais, nel pomeriggio visitiamo la “Sorgente dell’Occhio Azzurro”, che dista una ventina di chilometri. É all’interno di un parco naturale che comprende più sorgenti, tra boschi rigogliosi e selvaggi. Attualmente eroga quattro metri cubi di acqua il secondo, ma in epoche diverse ha raggiunto gli otto metri. Una tale portata potrebbe soddisfare il fabbisogno dell’intera popolazione della Vallesabbia, quasi sessantamila abitanti! L’acqua che sgorga dalla terra è azzurrissima, gelida, ed ha un potere che attrae, ammalia.
Paolo, sconsolato, dice che è certo che la sua mamma non è d’accordo, altrimenti si tufferebbe dalla passerella posta tre metri sopra la sorgente, che sprofonda nel terreno per più di sessanta metri: ventidue in verticale e dopo un sifone per altri quaranta. Genti invece non si fa pregare, sale sulla passerella e per ben tre volte, tra gli applausi degli astanti, si tufferà a testa nel gorgo azzurro. Se lo facesse Serafino, ne siamo certi, affonderebbe fino a sessanta metri, come un “plinto”. Il corso d’acqua che nasce dalla sorgente si getta in mare dopo pochi chilometri, ma nel bosco forma uno specchio d’acqua di notevole bellezza. Paolo si cimenta con Mario nel far saltare i sassi piatti a pelo d’acqua: “Due!”, “Tre!”, “Bravo!”. Arriva Genti e ne lancia uno che rimbalza sette o otto volte sulla superficie. “Mario, andiamo via, facciamo schifo!” gli propone sconsolato Paolo.

A sera ceniamo sulla spiaggia, in un rustico locale che abbiamo adocchiato di mattino. Lo raggiungiamo percorrendo la strada che ha consigliato l’albanese a Cristina, ed in realtà è un po’ disagevole.  Si fa buio, e poco dopo c’è un black out. L’atmosfera è ancora più romantica, e gusteremo insalata di mare e gamberoni, fritto misto e branzino, pesce appena pescato, squisito, di una bontà eccezionale, accompagnati da birra ed un vino bianco locale, asprigno ma eccellente, dopo aver ammirato un tramonto mozzafiato. Il costo? Otto euro scarsi a testa!

Tornati a Saranda, dopo una passeggiata defatigante sul lungomare, ce ne andiamo a riposare.


Tratto dal volume “Ai cinquanta ci sono arrivato” – Ed. Liberedizioni
 
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