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07 Febbraio 2013, 09.00

Pensieri

Volontà e certezza


La Certezza come essenza della Volontà da Essenza del Nichilismo come spunto per approfondire sulla via della Verità. Di Emanuele Severino, scelto da Dru
 
L'alienazione metafisica intende la volontà come la forza suprema che fa uscire gli enti dal nulla e li fa ritornare nel nulla: si tratti della volontà di 'Dio' o della volontà dell" Uomo'.
Nella civiltà occidentale, dominata dalla metafisica, l'uomo vuole ormai soltanto in questo modo, e si pone come il vero creatore e distruttore dell'essere. Il pensiero che si libera da questa dominazione sa invece che la volontà conduce l'essere nell'apparire. In ogni caso. Anche quando si vuole metafisicamente, il volere è sempre un condurre l'essere fuori del suo nascondimento.
 
Che esista un legame necessario tra il volere e l'accadimento del voluto è un problema che ancora non trova risposta.
La formulazione metafisica del rapporto di causa ed effetto è un'espressione del nichilismo; ma anche quando l'effetto sia inteso non più come l'uscire dal nulla, ma come l'uscire dal nascondimento, anche allora il rapporto di causa ed effetto, come rapporto necessario, resta un problema (una determinazione che non si sa se appartenga alla verità dell'essere).
 
Voglio accendere il lume; il braccio si allunga e il lume si accende.
È necessario che l'apparire della decisione sia accompagnato dall'apparire del braccio che si allunga e del lume che si accende? Sin tanto che non si è in grado di stabilire questa necessità (e l'apparire, in quanto tale, non può stabilirla, ma solo lasciar apparire ciò che sia stato stabilito), la volontà conduce l'essere nell'apparire nel senso in cui viene condotto l'ospite in casa: la volontà invita l'essere nell'apparire e le opere della volontà sono il modo in cui l'essere risponde all'invito.
Quando l'alienazione metafisica domina la volontà, l'invito — in cui pur sempre consiste la volontà — viene inteso e vissuto come la costrizione che fa uscire e ritornare l'essere nel nulla. Anche qui l'essere risponde all'invito, ma la risposta sono le opere che vengono alla luce nell'alienazione. L'Occidente è l'opera dell'alienazione.
 
Se la volontà è un invito rivolto all'essere, l'essenza della volontà è la certezza.
È a questa essenza che compete di essere un invito. Poiché l'apparire (come orizzonte totale) è la stessa certezza trascendentale, l'apparire è la costituzione trascendentale della volontà. A
nche il linguaggio riporta la volontà alla certezza: certus significa anche 'deciso' (uscito cioè dall'incertezza rispetto a questo o a quello: certus eundi, deciso ad andare), e(cerno) significa tanto 'decido', ` scelgo ', quanto 'credo', .'sono certo '.
 
D'altronde, la certezza, come essenza della volontà, si trova in una pluralità di rapporti, e il linguaggio chiama solitamente volontà ' solo alcuni di questi rapporti e non gli altri.
Esiste la certezza (ossia l'apparire) di ciò che eternamente appare, ed esiste la certezza dell'accadimento e della sua prosecuzione; la certezza che ha come contenuto la verità e quella che ha come contenuto la non verità, o l'errore, o ciò che ancora non si manifesta né come verità, né come errore; la certezza dell'accadimento di qualcosa, il cui accadere si ritiene dipenda o non dipenda da noi, il cui accadere è giudicato come un bene o come un male, il cui accadere è sperato o temuto: in questi e in tutti. g i altri casi possibili varia la struttura di ciò di cui si è certi, ma si ripete la stessa essenza, cioè l'esser certi di qualcosa.
 
Se la parola 'volontà' è comunemente usata per indicare solo alcuni di questi casi, essa viene per altro introdotta con la convinzione che il volere differisca dalla certezza.
Eppure, ciò che così resta qualificato come 'volere ' è un modo di essere certi. la volontà è solitamente intesa come volontà del futuro (ossia della prosecuzione dell'accadimento). Voglio accendere il lume che ancora è spento; voglio andare, io, che ancora son fermo. che accade quando voglio accendere il lume? In che consiste questa decisione?
Il volere, nella sua essenza, è qui la pura certezza che ora accenderò il lume, la pura certezza che qualcosa — l'allungarsi del braccio e l'accendersi del lume — abbia ad accadere. Volerlo accendere è lo stesso pensare: « Ora lo accendo »: purché il pensare sia il non aver più dubbi o incertezze intorno all'accadimento del pensato.
 
Se il futuro è la possibilità dell'accadimento e della sua prosecuzione, volere il futuro significa aver fede nel suo avvento.
La fede è la certezza in quanto ha come contenuto il controvertibile: che il mio braccio si allunghi e il lume si accenda è soltanto una possibilità, un'ipotesi (e dunque è qualcosa di dubitabile, di incerto).
La fede toglie al proprio contenuto ogni carattere di possibilità e di ipoteticità, tratta il controvertibile come incontrovertibile, ossia è la certezza di ciò che alla verità appare come incerto.
 
La contrapposizione della fede alle opere è la contrapposizione di due tipi di fede: la fede senza le opere è l'aver fede in qualcosa, senza aver fede nell'accadimento delle opere; le opere senza la fede sono la fede nell'accadimento non accompagnata da un cert'altro tipo di fede.
In quanto la volontà è certezza, differisce da ogni forma di desiderio, aspirazione, velleità, ecc., che hanno in comune l'incertezza dell'accadimento del desiderato. Il desiderio di uscire, nel malato, è la convinzione che, se uscisse, non sarebbe accompagnato dalla tristezza che ora lo affligge.
L'uscire, qui, è il contenuto di un'ipotesi più o meno probabile, non di una certezza. Chi si limita a desiderare è chi non sa se potrà avere ciò che desidera; chi vuole qualcosa che ancora non ha è invece chi è convinto di poterla avere, ossia è convinto che qualcosa (il voluto) abbia ad accadere.
 
Chi dice: « Non so se sarò capace di camminare, ma voglio camminare », in effetti non vuole camminare, ma vuol tentare di camminare, vuole il tentativo; ossia è certo che il tentativo abbia ad accadere, ma non è certo che il tentativo riesca.
E chi dice: « Sono certo di morire, ma non voglio morire », non è che voglia l'immortalità, ma la desidera, ossia è convinto che sarebbe felice se fosse libero dalla morte e si trovasse in quello stato in cui fosse certo di non morire.
In effetti, ciò che vuole è proprio morire; e predispone alla morte ogni atto della sua vita. Non nel senso che si metta in cerca di ogni occasione per darsi la morte, ma nel senso che il suo evitar di morire in questo o quel modo si svolge all'interno di una fondamentale orientazione alla morte. Non vive da immortale, ma da mortale.
 
Poiché la certezza è l'essenza della volontà, volontà e certezza non sono due determinazioni diverse, che si trovino in un rapporto di implicazione, sia pure necessaria. Se si pensa che volontà e certezza si implichino necessariamente, restando tuttavia due determinazioni diverse, è perché si attribuisce al volere la capacità di produrre il voluto: la certezza è contemplazione, il volere è azione produttrice.
 
Nell'alienazione metafisica il produrre è sempre un far passare il prodotto dal niente all'essere. (Anche quando si riconosce che il materiale — ad esempio l'argilla — preesiste al prodotto - il vaso d'argilla —, d'altra parte il pensiero metafisico deve tener fermo che quella sintesi del materiale, in cui consiste il vaso, prima di essere prodotta era niente. Se di questa sintesi, o unificazione del materiale, niente fosse stato niente, ma ogni aspetto, ogni momento dell'unificazione fosse già stato, allora non si potrebbe nemmeno dire che è stato prodotto qualcosa).
 
Già definendo la volontà come appetitus , la si pensa come un agire produttivo, poiché una 'tendenza' è tale solo se in qualche modo modifica l'ambiente in cui si trova.
Al di fuori del pensiero metafisico, l'agire, come legame necessario che porta dall'apparire del volere all'apparire del voluto, è ancora un problema.
Ma anche quando si sapesse che in certe situazioni l'apparire del volere è necessariamente accompagnato dall'apparire del voluto, anche allora il volere resterebbe pur sempre la certezza dell'accadimento del voluto. A volte, la volontà, ad esempio, di muovere il braccio è accompagnata dalla convinzione che il movimento dipenda dal nostro volere; ma altre volte la volontà di muovere il braccio non è accompagnata da questa convinzione e il volere si esaurisce nella pura fede che il movimento abbia a compiersi.
Si afferma che la volontà fonda la fede, perché questa è l'assenso determinato non dall'evidenza del contenuto, ma dalla volontà. Si deve dire, invece, che quando si ha fede la volontà consiste nell'aver fede.
 
Se qualcosa non è destinato ad accadere, ma il suo accadimento è una possibilità, volerne l'accadimento è allora confidare nella rivelazione dell'essere.
La fiducia nel suo rivelarsi è il modo in cui lo si invita nell'apparire; il lume che si accende e le montagne che si muovono sono il modo in cui l'essere accetta l'invito. Ma quando si vuole qualcosa, non si vuole solamente quel qualcosa, ma lo si vuole in un contesto.
Quando voglio accendere il lume, voglio che esso si accenda nella stanza e illumini gli oggetti e i miei movimenti e accompagni, servitore discreto, quanto vado facendo e pensando. Volerlo accendere, significa volerlo inserire nell'orizzonte degli enti che appaiono, e dunque voler portare innanzi questo orizzonte, affinché esso faccia compagnia alla nuova determinazione voluta e la avvolga.
La volontà di accendere il lume è quindi soltanto un momento della volontà che il mio mondo continui ad apparire.
E questa è a sua volta un momento della volontà originaria, con la quale l'eterno apparire della verità dell'essere vuole la terra. I singoli enti sono voluti all'interno della volontà originaria che vuole la terra.
 
Nell'eterno apparire della verità dell'essere, la terra accade; e il suo accadimento vi è accolto. La verità vuole che la terra continui ad apparire nella verità dell'essere: il voluto non è semplicemente la terra, ma il legame che la unisce alla verità dell'essere.
Volere accendere il lume è esser certi che accada l'accenderlo; volere la prosecuzione del nostro mondo è esser certi che esso continui ad apparire; volere la terra è esser certi che l'accadimento, come orizzonte di ogni accadimento, continui nell'eterno apparire della verità dell'essere. La certezza è lo stesso apparire: con l'accadimento della terra, nella verità non appare soltanto lo sfondo e, in esso, la terra, ma appare insieme che la terra continuerà ad accadere.
Il voluto è così lo stesso organismo totale di ciò che appare.
 
Ma la verità dell'essere non domina incontrastata l'apparire: la verità e l'errore, che isola la terra dalla verità della terra, si contendono l'apparire e dunque si contendono la volontà.
In quanto l'uomo vive nella non verità, la terra è voluta, insieme, come legata e come isolata dalla sua verità: la certezza che la terra continui ad accadere nell'apparire della verità dell'essere è in lotta con la certezza che la terra continui ad accadere nell'isolamento che la costituisce come il tutto con cui abbiamo sicuramente a che fare.
La più banale delle volizioni, per esempio voler accendere un lume, affonda le sue radici nell'abissale profondità del volere che vuole la terra nel suo legame alla verità della terra. Ma l'errore isola la terra, voluta, dalla verità della terra, sì che quella volizione è insieme momento di una volontà che vuole la prosecuzione della solitudine della terra. Nella non verità si vuole l'opposta prosecuzione del medesimo, perché la volizione di qualcosa è assunta in due opposti contesti (la verità dell'essere e l'errore isolante).
 
Le opere della non verità sono la risposta dell'essere ad un invito ambiguo (ossia in contrasto con se medesimo).
E la stessa risposta — cioè l'opera — è ambigua, perché, come ogni ente che appare nella non verità, è inscritta nei due opposti contesti della verità e dell'errore.
Ma la terra stessa, come risposta dell'essere all'invito ambiguo che la vuole, è l'opera della non verità: l'opera nel cui seno vien compiuta ogni opera della non verità.
 
di Emanuele Severino
(scelto da Dru)
 
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