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23 Ottobre 2012, 09.15

Terza pagina

Il «giallo» di Sciascia

di Valter Vecellio
Lunghetto, ma davvero interessante, il contributo di Valter Vercellio per vallesabbianews, che riporta una sua "conversazione" dello scorso 19 ottobre a Manerba

IL GIALLO DI SCIASCIA, UN LABIRINTICO INTRECCIO DI ETICA, POLITICA E DIRITTO
Manerba 19 ottobre 2012
di Valter Vecellio

Quando mi è stato proposto il tema di questa conversazione, “Il giallo di Sciascia. Un labirintico intreccio di etica, politica e diritto”, ne sono subito rimasto intrigato; poi, appena ho detto che mi sembrava un ottimo tema di riflessione e di discussione, sono stato afferrato come da un senso di vertigine. Perché mi conto della vastità del tema, se ne potrebbe parlare per giorni e giorni, e perdersi…appunto un “labirintico intreccio”.

Mi sono anche chiesto quale poteva essere un possibile bandolo da cui cominciare. Si può iniziare  da una delle ultime dichiarazioni rilasciate da Leonardo Sciascia; una dichiarazione che direi sia un po’ il paradigma di quello che è stato, ha fatto, ha cercato di fare. La dichiarazione è questa: “Parlando di politica, Borges diceva che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella – aggiungeva – non era politica, era etica. Al contrario, io (è sempre Sciascia che parla), mi sono sempre occupato di politica; e sempre nel senso etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione, o il mio errore: voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un bel felice errore se gli italiani, e specialmente in questo momento, vi cadessero”.

Ho poi trovato tra le mie carte un biglietto, poche frasi che possono valere come ideale integrazione alla dichiarazione che ho appena letto: “Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata. Come dice il titolo di un recente libro di Jean Daniel, questa è l’era della rottura – o soltanto l’ora. Non bisogna lasciarla scivolare sulla nostra indifferenza, sulla nostra ignavia…”

Beh, certo: la tentazione di essere attivamente indifferenti, una schifata ignavia, era allora – stiamo parlando di trent’anni fa – giustificata; e figuriamoci oggi, dove davvero tutto sembra andarsene a rotoli sia per quel che riguarda la politica, sia per quel che riguarda l’etica.

E però ci soccorre – o almeno trovo soccorso, e spero lo troviate anche voi – ancora Sciascia, che a un certo punto dice: "Bisogna cominciare a contarsi, come diceva Seneca. Si scoprirà, allora, che siamo isolati ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre, come diceva De Sanctis, l'‘opinione' alle ‘opinioni correnti'". Conservo quel biglietto, del 1982, come una sorta di reliquia "laica", per me più sacra di quel che può essere l'ampolla col presunto sangue di San Gennaro per un napoletano. Quelle frasi sono per me una sorta di contravveleno che mi rende più lieve sopportare i tempi che ci tocca vivere e patire. Tempi che immagino anche Sciascia avrebbe trovato insopportabili per l'ostentata, compiaciuta volgarità che li segnano; e che giustificano insieme un impegno per opporre "barriera", fare resistenza; e disimpegno, fuga, riparo nell'ideale tana, avendo ben cura di cancellare ogni traccia.

Di occasioni per "contarsi", per rendere visibile quella salutare confusione tra politica ed etica, Sciascia ne ha avute tante; penso alla polemica che lo oppose al Partito Comunista, in occasione del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse; la mafia, il professionismo anti-mafia; l'impegno a fianco di Enzo Tortora, prima perché si facesse luce sulla vicenda che lo aveva colpito, poi per una giustizia più giusta, umana e rispettosa dell’individuo...

Penso a versi che risalgono agli anni Sessanta. Sciascia è più conosciuto come scrittore di prosa, ma ogni tanto accadeva anche a lui di scrivere versi. Lo faceva  - è lui che lo racconta - quando aveva qualche difficoltà con la prosa, perché per lui i versi erano il grezzo della prosa. Sono versi di una poesia "civile" che avevano una rispondenza ai fatti che accadevano quando li aveva scritti, vent'anni prima; e ancor più, qualche rispondenza ce l'hanno con l'oggi, se è vero che mafia, camorra e ‘ndrangheta, senza lasciare i loro territori d'origine, si sono ormai saldamente insediati in ogni regione del centro-nord, e da tempo hanno varcato la frontiera di Chiasso.

La poesia dice così:

“Il poeta Abu-Hatem, es Segestani
di Persia o di Sicilia (la questione
è rimasta in sospeso), scrisse
lungo elogio della palma: albero
foggiato dalle mani di Dio
a immagine dell'uomo, come Adamo
a immagine di Dio; albero eccelso
che segue la marcia dell'Islam
poiché è dono al credente, e in paradiso
darà ombra dolcissima a fanciulle
dagli occhi neri e casti
che nude fluiranno tra le mani
del credente vero.
Gli scienziati
dicono invece che la linea della palma
non ha niente a che fare
con la marcia dell'Islam, e si sposta
di cinquecento metri ogni anno
verso il nord.
Personalmente,
non giurerei che la marcia della palma
non ha niente a che fare con l'Islam,
né che avanza verso il nord
solo di cinquecento metri ogni anno.
Probabilmente, a sbalzi e ad arresti,
la media della marcia è più celere...”.


La media della marcia della palma è più celere…Vi chiederete se non la sto prendendo un po’ troppo alla lontana. Vi chiedo pazienza, arriveremo al punto.

Con la metafora della palma la cui linea sale inesorabilmente verso Nord, Sciascia intendeva la mafia; e proprio della mafia ha dato una definizione che, nonostante risalga a più di cinquant’anni fa, direi sia tra le più calzanti tra le tante che sono state date: sinteticamente esatta, da dizionario.

La definizione è questa: "La mafia è un'associazione per delinquere, con fini di arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, ed imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato".

Bisogna fare attenzione alle date: queste cose Sciascia le diceva e scriveva negli anni ‘50, quando ancora l'allora cardinale di Palermo Ruffini negava che esistesse la mafia, e chi ne parlava era accusato di denigrare la Sicilia e i siciliani.

Dovremmo rivolgere un pubblico appello al ministro dell'Istruzione perché nelle scuole sia inserito, almeno tra le raccomandate, la lettura de "Il Giorno della civetta". Romanzo che ha reso celebre Sciascia in tutto il mondo, anche per via del film che poi ne ha ricavato Damiano Damiani. E’ il romanzo dove a un certo punto c’è la famosa classificazione del genere umano fatta dal capo mafia: uomini, mezzi-uomini, ominicchi, piglia-in quel posto (nel film, per non incappare nella censura di allora, diventa “ruffiani”) e quaquaraquà. Questa è la pagina suggestiva. La pagina su cui conviene meditare, la pagina-chiave del libro è quella che viene prima, una pagina che andrebbe scolpita nei manuali - se ve ne sono - di addestramento per poliziotti, carabinieri, magistrati. La pagina è quella in cui il capitano Bellodi, è preso da scoramento. Teme che don Mariano Arena, il capo-mafia del paese, possa farla franca, come poi in effetti accadrà, grazie alle alte protezioni e alle complicità politiche di cui gode. Per questo il capitano Bellodi, questo uomo del nord, originario di Parma, antifascista e che ha fatto la Resistenza, cede per un attimo alla tentazione di tradire gli ideali in cui crede e ha combattuto, e pensa che si debbano e possano usare quei metodi al di là e al di sopra della legge che furono la caratteristica del prefetto Cesare Mori durante la dittatura fascista, in omaggio al detto che "il fine giustifica i mezzi".

Mezzi indubbiamente spicci e disinvolti, quelli usati dal prefetto Mori, benissimo descritti in un libro di Arrigo Petacco; mezzi che tuttavia furono consentiti solo fino a quando il fine da colpire erano i rami "bassi" della mafia, i briganti. Quando Mori cercò di arrivare ai rami "alti", ai capi, che erano già collusi e protetti dal regime, prontamente si trovò nominato senatore; promosso e rimosso.

Il capitano Bellodi vince quella tentazione/illusione in cui era momentaneamente precipitato; e sviluppa un ragionamento che è il nocciolo della questione; e qui è facile immaginare che è Sciascia a parlare attraverso Bellodi:

"…Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi...".

Quella che fin dagli anni Sessanta viene suggerita è una precisa strategia investigativa: gli accertamenti bancari, il controllo dei patrimoni; una strada che nessuno aveva mai tentato, e che nessuno tenterà mai prima di Giovanni Falcone, che lo farà vent'anni dopo, assieme ad altri eroi come il commissario Ninì Cassarà. Pensate se questo suggerimento fosse stato accolto e messo in pratica quando venne dato, nel 1962; pensate se già allora si fosse messo a confronto il livello di vita reale di certi funzionari e politici con i loro stipendi, a Roma come a Milano e ovunque…forse molte di quelle cronache che poi sono diventate capitoli dell'interminabile libro che si chiama "Tangentopoli", ce le saremmo risparmiate; e magari lo fosse anche oggi, con le cronache quotidiane che ci parlano di “sistema” Fiorito, “sistema” Formigoni, “sistema” Penati…

E’ interessante inoltre il modo severamente critico, impietoso con cui Sciascia, attraverso Bellodi scruta l'arretratezza culturale del vecchio mafioso, quando gli pronostica che la figlia, mandata a studiare in costosi collegi svizzeri, proprio per questo diventerà una siciliana "nuova", "pietosa", che non avrà più bisogno della mentalità mafiosa. Forse Sciascia è stato troppo ottimista: che si può benissimo essere mafiosi e laureati. C'è per esempio un'importante famiglia mafiosa, ramificata tra Canada, Venezuela e mezza Europa: i Caruana e Cuntrera; i nonni sono partiti da Siculiana, piccolo centro nell'agrigentino, letteralmente con le pezze al sedere, la valigia di cartone legata con lo spago. I nipoti si sono laureati a Cambridge e ad Harvard, parlano lingue, hanno conseguito master, frequentano la Borsa, si orientano tra listini e mercati azionari; e sono mafiosi a tutti gli effetti: buona parte del traffico internazionale di droga lo gestiscono loro. Però ha ragione Sciascia quando, alla domanda su che cosa si può fare di concreto contro la mafia, risponde: studiare, leggere. Un libro in più, una mela marcia di meno.

Sciascia e il poliziesco. Alberto Moravia, recensendo per “Il Corriere della Sera” “Il Cavaliere e la morte” ha individuato quella che possiamo definire la tecnica peculiare di Sciascia: “Il racconto comincia con la chiarezza, si sa benissimo chi ha ucciso; e finisce col mistero: non si sa affatto chi ha ucciso”. Un procedimento che troviamo nel colloquio tra “Il Vice” e il suo  Capo: i figli dell’89 – questo sedicente gruppo di terroristi assassini – sono stati creati per uccidere l’avvocato Sandoz, potente amico di potente e non solo potente oppure, al contrario Sandoz è stato ucciso per consentire la creazione dei figli dell’89?

Ed è interrogativo che si farebbe bene a porre in molte situazioni che la quotidiana realtà ci offre.

Per andare a ritroso: il “Il Contesto”, è un romanzo ambientato in uno Stato imprecisato, ma molto simile all’Italia; racconta la storia di un uomo che va ammazzando giudici, dell’uso che si fa di questi delitti; di un poliziotto che ad un certo punto diventa l’alter ego dell’assassino. “Todo Modo”, l’unico romanzo di Sciascia narrato in prima persona: un “giallo” di cui non viene data alcuna spiegazione esplicita, piuttosto è il lettore che deve trovare la risposta alla domanda: “Chi è il responsabile dei tre omicidi”. “A ciascuno il suo” comincia subito con il delitto di due notabili, il dottor Roscio e il farmacista Manno, tutti sanno dell’imbroglio, meno il professor Laurana che paga con la vita questo suo non sapere, e per epitaffio ne ricava un lapidario: “Era un cretino”. E “Il Giorno della Civetta”, che racconta la mafia degli anni Cinquanta, mentre quella di “A ciascuno il suo” è quella che già si è inurbata, degli anni ‘70. Anche ne “Il Giorno della civetta” abbiamo dei delitti, abbiamo dei colpevoli; che non è possibile dimostrare siano tali, per le protezioni di cui godono…Sono tutte catene inafferrabili, che si perdono in una nebbia fitta e impenetrabile, gli investigatori sbattono inesorabilmente la testa in un muro che è insieme d’acciaio e di gomma.    

La particolare declinazione che Sciascia dà del romanzo poliziesco è stata oggetto di diverse ricognizioni. Non a torto si osserva che i suoi romanzi violano clamorosamente le famose venti regole per scrivere un buon poliziesco, dettate da Van Dine, il creatore dell’investigatore dilettante Philo Vance: e tuttavia i romanzi di Sciascia sono polizieschi.

Può capitare, come in “Todo Modo” si essere tratti in inganno dallo stesso io narrante; oppure come in “A ciascuno il suo” di essere confusi da vicende che hanno poco o nulla a che fare con la storia, il lettore si confonde, il protagonista ci rimette la vita; addirittura ne “Il Contesto”, o “Una storia semplice” il colpevole finisce col diventare chi al colpevole dovrebbe dare la caccia.

Il colpevole poi non è mai uno solo, c’è sempre una trama occulta di complicità; i delitti non sono provocati da motivazioni personali, quasi sempre sono di matrice politica. Diciamo che le uniche regole del poliziesco che Sciascia rispetta sono la presenza di un morto (più d’uno, anzi);  l’assenza di mezzi soprannaturali per la soluzione del mistero; la “familiarità”, per il lettore, del colpevole; l’evidenza della soluzione (fin troppo scoperta nei casi del “Giorno della civetta” e del “Cavaliere e la morte”); il fatto che le morti non siano accidentali o dovute a suicidio.

Non c’è uno dei testi polizieschi sciasciani in cui il colpevole sia punito. O, meglio, può essere punito il singolo colpevole, ma non si può mai sconfiggere la trama criminale di cui fa parte. Emblematico “Una storia semplice”: la morte-punizione del commissario corrotto non serve a nulla, la sua colpevolezza viene ‘insabbiata’ dai superiori magistrato, capo della polizia e dei carabinieri per una volta d’accordo nell’occultare la verità; inoltre, la complicità impunita di un prete-mafioso, padre Cricco, nell’ultima pagina del racconto lampeggia in modo inquietante.

Ovviamente Sciascia “usa” il genere poliziesco per veicolare anche altro. L’inchiesta poliziesca è un mezzo per far nascere la riflessione e la presa di coscienza sul carattere inaccettabile di un sistema politico e sociale. Più che l’inchiesta, per Sciascia è importante la passione dell’inchiesta sulla realtà, il bisogno di conoscere una verità che può essere il movente di un crimine. L’inchiesta è il mezzo privilegiato d’una riflessione insieme politica e filosofica.

Prima di scrivere Il giorno della civetta, Sciascia aveva pubblicato diversi interessanti articoli sul “giallo” come genere letterario, sulla sua tradizione soggetta a diversi mutamenti: articoli che rivelavano un’attenzione antica, una passione lungamente coltivata.

Il primo, “Letteratura del giallo”, uscì sull’autorevole rivista “Letteratura” nel 1953. Fra i generi del “sottobosco” letterario - quella che sarà poi chiamata paraletteratura – Sciascia considera il “giallo” come “la zona più interessante del sottobosco, quella che riserva le sorprese più autentiche”.
 
Un anno dopo, nel 1954 pubblica sulla rivista genovese “Nuova Corrente” un saggio modestamente intitolato “Appunti sul giallo” che credo sia uno dei saggi più approfonditi sulla letteratura poliziesca che siano stati scritti in Italia.
 
Sciascia ricorda il nesso proposto da Gramsci fra il romanzo poliziesco e la “letteratura popolare delle cause celebri; tenendo ben presente un fatto letterario più specifico, quale è quello del romanzo nero o gotico”. Sottolineata l’importanza della descrizione e dell’inventario nel racconto “gotico”, Sciascia sottolinea che anche nel “giallo” moderno, che presenta forti esigenze realistiche, “la descrizione resta l’unico strumento e scopo dell’opera: la realtà viene centrifugata nella descrizione; e diviene, così, […] gratuita. La centrifugazione della realtà è la specifica tecnica del romanzo poliziesco. Il giallo, come tutta la letteratura del gratuito (nera o rosa, edificante o patriottica o pornografica), è dunque un sottoprodotto […]; ma è anche letteratura del sottosuolo umano”.

Basterebbe quest’ultima osservazione - “letteratura del sottosuolo umano”, siamo nei dintorni di Dostoevskij!! - per farci capire quanta fiducia Sciascia riponesse nel valore conoscitivo ed espressivo del genere poliziesco: la qualifica di “letteratura del gratuito”, invece, va vista appena come un omaggio a Elio Vittorini e soprattutto come una residua traccia di prudenza tipica di un intellettuale che nel ’54 vive ancora ai margini della comunità letteraria ufficiale, all’interno della quale la diffidenza verso il romanzo poliziesco è ancora assai diffusa.

Sciascia, peraltro, rincara la dose: “se per un momento ci fermassimo, più che sulla qualità dell’offerta, sulla natura della richiesta, il fenomeno ci appare tale da dover chiedere a Freud, prima che a Marx, la chiave per intenderlo”.

Sciascia è disposto a trattare da romanzo poliziesco qualunque testo in cui lampeggi, anche minimamente, il mistero: Ecco dunque che confessa di essere affascinato da personaggi come Florizel, il protagonista de “Il diamante del Rajà”, di Stevenson, ma anche dal Padre Brown di Chesterton, garante di una morale in senso lato cristiana, in qualche caso cattolica. E, come loro, il commissario Maigret di Georges Simenon, che Sciascia legge –in un altro articolo dello stesso ’54 – sotto il segno del cristianesimo: Maigret “con un’aria di massiccia ottusità, è un uomo che sa ascoltare, sa guardare: e coglie nella vibrazione di una voce, nell’esitazione di un gesto, nell’arredamento di una casa, più verità che nelle impronte digitali e nelle perizie balistiche. Non è un fanatico, qualche volta lascia persino che il colpevole non paghi nella misura della legge: gli basta paghi nella misura della coscienza, del rimorso. È un francese della provincia, con le virtù, e non coi difetti della provincia; cattolico, di un cattolicesimo divenuto tollerante saggezza, quieto giudizio, arguzia persino”.

Assomiglia un po’ a Padre Brown; egli ha “il senso della natura morta; delle cose che parlano per gli uomini che tra esse vivono”.

Dunque la preferenza di Sciascia va ai detectives gentili, pazienti, rispettosi – in modo non astratto - dei diritti di sospettati e colpevoli: padre Brown e Maigret soprattutto. Quest’ultimo, osserva, non è un “tipo” immutabile come tutti gli altri: nel corso dei romanzi ha fatto carriera, è invecchiato, ha acquisito esperienza e saggezza. E, quel che più conta, “il suo metodo di indagine non procede per indizi materiali che ad altri sfuggono né attraverso una geometrizzazione intellettuale”. Non è insomma, né l’aridamente “scientifico” Holmes né il cerebrale Poirot.

Sciascia prosegue in questa rassegna di detectives e fa capire che Philo Vance non gli dispiace, forse perché letteratissimo e fine connaisseur: non sopporta invece Sherlock Holmes, né lo entusiasmano Nero Wolfe e Perry Mason; disprezza gli eroi dei polizieschi avventurosi di Edgar Wallace, odia, il Mike Hammer di Spillane, che gli si rivela anche come un ottuso maccartista. Non lo ammette esplicitamente, ma gli piacciono il Sam Spade di Hammett e soprattutto il Philip Marlowe chandleriano, taciturno abitatore di un altro, metropolitano “sottosuolo”.

Giallo e poliziesco a parte, i romanzi di Sciascia sono letteralmente intrisi di etica, politica e diritto. Prendiamo per esempio una riflessione contenuta ne “Il Cavaliere e la morte”. Riguarda la legge, il diritto: “Una legge pensava per quanto iniqua, è pur sempre forma della ragione: per conseguirne il fine di estrema. Definitiva iniquità, quegli stessi che l’hanno voluta e che l’hanno fatta, sono costretti a prevaricarla, a violentarla. Il fascismo era anche questo: un sottrarsi alle stesse sue leggi. E anche il comunismo di Stalin, di più anzi”.

“C’è un passaggio estremamente significativo in “A futura memoria”, una raccolta di articoli a cui teneva particolarmente, e che ha un sottotitolo amaro: “se la memoria ha un futuro”:

“Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato con Stalin, i clericali di essere un senza Dio, e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è”.

Sciascia amava citare due scrittori: il cattolico Georges Bernanos, autore di un grande libro contro il franchismo, “I grandi cimiteri sotto la luna” (e per questo nel mondo cattolico di allora divenne una pecora nera); e André Gide, che pur comunista, prima di diventare uno dei sei “rinnegati”, come li bollò Palmiro Togliatti, non esitò a denunciare negli anni Trenta, con “Ritorno dall’URSS”, gli orrori staliniani e del comunismo sovietico. Due scrittori, due libri, due “solitudini”. Per Sciascia erano il modello più alto di impegno. Una volta confidò di sentirsi, e di essersi sentito per tutta la vita, come il pesce volante citato da Voltaire: “Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano. Se si immerge sott’acqua se lo mangiano i pesci”. Una condizione, aggiunse, “bellissima, anche se tremenda”. Poi, con una punta di malinconia, si domandava: “Quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettare questa condizione e a viverla?”.

Chiudo con un brano di un resoconto di quello che Sciascia disse incontrando un gruppo di studenti di Lipari nel maggio del 1984: “C’è un rischio. Il rischio è questo: tutti si occupano di mafia. Tranne la polizia. Non si può perdere di vista questo: di mafia si deve occupare anche e soprattutto la polizia. Poi va benissimo che se ne parli a scuola, nelle famiglie, sui giornali e ovunque. L’educazione civica totale si può fare anche attraverso la letteratura italiana. Se il professore, quando arriva ad aprire il capitolo dei "Promessi Sposi" al capitolo dei bravi, si ferma a dire: guardate, questa è la Lombardia del Seicento. La Lombardia di oggi non ha più questi fenomeni, mentre in altre regioni noi li abbiamo. La Lombardia non li ha più perché ha avuto la fortuna di avere il governo austriaco di Maria Teresa; e se spiega in che cosa consisteva il governo di Maria Teresa, l’illuminismo austriaco, allora credo che si avrebbe una nozione della mafia molto più precisa di quella che si può trovare nei testi mafiologhi”.

Avere spirito critico, unico antidoto in un mare di retorica che minaccia di travolgerci: questo l’insegnamento che ci ha lasciato. Assieme ai suoi libri, le sue opere. Fino a quando quei libri saranno letti, fino a quando continueremo a parlare e ragionare di lui, un po’ di Leonardo continuerà a vivere con noi, per noi.
 
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