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25 Giugno 2012, 11.30

Filosofia

La cinematografia è pensiero

di Alberto Cartella
Scegliere film più «difficili» che implicano di pensare significa dare avvio al principio di liberazione che l'atto del pensare mette in moto ogni volta in noi, spingendoci a rapportarci col presente, affrontare nuovi problemi e ridefinire noi stessi
 
La cinematografia ha sempre avuto al suo interno una spaccatura, un solco, una discontinuità: ci sono sempre stati film belli e film divertenti. Per esprimere questa differenziazione ci si può riferire a film come Indiana Jones (divertente) e Schindler's List (bello) di Steven Spielberg.
 
Fare questa differenziazione non vuol dire applicare delle etichette o fare una selezione, ma si sta semplicemente facendo riferimento a ciò che ha mosso il regista a creare un film, il quale può trasformarci (in quanto è stato trasformante in primo luogo per il regista stesso) o può essere funzionale a farci divertire.
 
Nel caso della trasformazione ciò che ha mosso il regista a creare il film è un elemento anonimo attorno al quale si incrociano i suoi tentativi d’espressione. È un luogo vuoto che orienta ciò che il regista esprime. Il regista è orientato da qualcosa che sente come vero ma che non può dire.
 
Una volta un ragazzo, quando gli ho detto che ci sono film belli (che richiedono impegno e pensiero) e film divertenti (che servono per distrarsi), mi ha risposto che preferisce i film divertenti, perché di problemi nella vita ce ne sono già tanti.
 
Quel ragazzo aveva tanti problemi nella sua vita proprio anche (non solo) perché non è mai stato impegnato da nessun bel film e proprio perché nessun film gli ha dato da pensare.
 
Oltre che la risposta a questi problemi, richiede un pensiero (non un sapere) anche la costituzione dei problemi stessi. Altrimenti tutto costituisce un problema e ciò porta alla frustrazione e a volte all’autodistruzione.
 
La ricerca della distrazione va proprio in quest'ultima direzione, perché se tentiamo di cancellare i nostri fantasmi, proprio quando ci sembra di essere riusciti, questi ritornano in maniera ancora più devastante.
 
Si tende spesso a cercare delle vie di fuga per raggiungere la cosiddetta tranquillità. Lo stare tranquilli è visto come un valore, senza considerare che già il fatto di nascere implica una responsabilità. Ognuno nasce con una responsabilità, quindi più che trovare delle vie di fuga, che si trasformano più spesso in prigioni d'acciaio, è “imparare a stare” ciò che manca.
 
L'ansia è legata al convincimento che la via di fuga sia la cosa migliore, il quale è un sintomo non indifferente. Pensiero non è sinonimo di razionalità. Il pensiero implica che la ragione tenga conto della non ragione. La razionalità deve tener conto di tutto ciò che non è dell’ordine del logos.
 
Il problema è come rapportarsi a ciò che non è ragione a partire dalla ragione. Come rapportarsi a ciò che non è filosofico. Ciò che mi faceva supporre lo scarso impegno di quel ragazzo e la sua pigrizia non era legato solamente alla sua frase, ma soprattutto al suo comportamento. Questo, però, non è un giudizio, perché il pensiero non è un dovere al quale quel ragazzo non ha aderito, non è una cosa che si sarebbe potuto trasmettergli, ma è una casualità che ci colpisce.
 
Esso ci attraversa e non rientra nell’ordine della volontà. Pensare è una decisione senza fondamento: è oscura la ragione che ci spinge verso il pensiero. Ma una volta che si è liberati, si cerca di liberare. Si scopre che quello che ci è stato raccontato fino a quel momento sono catene e che ora si ha a che fare con il reale (che non è la realtà), il quale ci punge e non è qualcosa di già istituito.
 
Perché ci si sveglia? È stata una decisione in base a niente. Si risponde perché c’è stato un appello che ci è rivolto in silenzio. Il pensiero è un percorso di liberazione da ogni dogma e non è del tutto nostro. Quel primo momento lo devo a niente, non sono stato io.
 
La libertà iniziale originaria non ci appartiene; essa non è un nostro possesso. Ci si muove nella dimensione della libertà, nella dimensione di quella apertura originaria che non abbiamo deciso, ma in cui ci si è trovati.
 
Per essere dei responsabili nei confronti di questa libertà dovremmo saperla donare, per creare le condizioni per cui tutti si possano liberare; che il dono venga accettato non è né in nostro potere né in quello di chi riceve il dono, ma è necessariamente casuale (decisione senza fondamento). Anche l’esperienza come il pensiero non si trasmette, non è riducibile alla memoria.
 
Non è una presa di posizione, ma è una riqualificazione della propria presenza. L’esperienza non si capitalizza. È triste sentire da ogni parte discorsi storici, con un’impostazione di memoria; si sente per esempio la frase “una volta le cose andavano meglio, sarebbe meglio tornare al passato”. Facendo un discorso di questo genere si cade sempre di più nel vuoto totale.
 
Si tratta invece di rigiocare il presente nel presente stesso e di rigiocare se stessi nella propria differenza. Non c’è niente da tenere vivo e non ci sono vie di fuga, non possiamo tirarci fuori dal tessuto che ci avvolge.
 
Quel ragazzo a cui ho fatto riferimento all’inizio dell’articolo non va escluso, non va abbandonato, ma bisogna trovare insieme le parole per ascoltare le esigenze nel presente, in questo momento, qui e ora.
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