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25 Dicembre 2012, 11.00

Filosofia

Il legame incomprensibile tra fede e religione

di Alberto Cartella
Nel giorno di Natale il filosofo saretino Alberto Cartella conduce una riflessione sul diverso approccio alla fede di ogni singolo uomo e al sistema dottrinale che vorrebbe governarla e al quale abbiamo dato nome 'religione'
 
La fede non ha nulla a che vedere con la dottrina e con il sistema delle regole. I dieci comandamenti non sono la fede e le leggi subentrano quando la fede diventa qualcosa che si dà per scontato.

La fede che non si dà per scontata non è una maschera che assumo, ma è ciò che mi mette in crisi, è il punto di crisi della mia soggettività.

Per quanto mi riguarda sono in una posizione agnostica e di apertura verso la fede. Il mistero può essere qualcosa di molto importante per me se con mistero si fa riferimento al tentativo di non ricondurre tutto all’interno di una struttura logica, ma si constata il punto di cedimento di questa struttura. Chi ha fede è proprio in quel punto e non cerca di risolvere la propria inquietudine.
 
Il riferimento è alla solitudine, a una solitudine di rottura del sapere, la quale non soltanto può scriversi, ma è quel che si scrive per eccellenza, poiché essa è ciò che di una rottura dell’essere lascia traccia. Ci ripetiamo soltanto grazie a un fallimento di ciò che si vuol dire. Si tratta della passione dell’ignoranza (Jacques Lacan).
 
La sola cosa che brucia all’inferno è la parte di noi che rimane aggrappata alla vita. I ricordi, gli affetti, all’inferno ti bruciano via tutto. Non lo fanno per punirti, ma per liberarti l’anima. Se abbiamo paura di morire e ci aggrappiamo di più alla vita, vedremo i diavoli strapparcela via, ma se raggiungiamo la pace i diavoli diventeranno degli angeli che ci liberano dalle cose umane.
 
È solo un problema di approccio (Meister Eckhart).
 
Si tratta del rifiuto, del «no grazie!». «Vivere è rifiutare, chi accetta tutto non è più vivo dell’orifizio di un lavandino» (Amélie Nothomb).
 
«Quando fu mezzogiorno si fece buio su tutta la regione fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò molto forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni? Che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15, 33-34).
 
Gesù non è come dovrebbe essere e l’abbandono sta ad indicarlo. Il corpo di Gesù nel sepolcro e i tre giorni in cui Dio è assente sono proprio il punto di crisi della logica verticale e decisionista del padre e del suo giudizio.
 
Il corpo non sono i contenuti che noi diamo al corpo, questa è l’anima, ovvero i presunti meccanismi su cui si sostiene il corpo. L’anima è ciò che noi pensiamo sul corpo. Il corpo qui non è una costruzione immaginaria, ma è la non coincidenza fra pensiero ed essere. Si tratta di una trascendenza immanente e di un corpo senza organi. Il corpo è un resto.
 
Nei tre giorni della deposizione Dio è assente. Dio non è rappresentabile, è un vuoto. Dio è nulla. Il mistero riguarda proprio questo. I tre giorni della deposizione sono la crisi del padre, il fallimento del padre. Il padre non è più colui che giudica, colui che emetterà il giudizio finale. Se fosse così, se tanto poi alla fine ci sarà la resa dei conti, allora perché Gesù? Perché i tre giorni nel sepolcro e non immediatamente la resurrezione e la glorificazione?
 
Vi è un’insufficienza del giudizio, una non coincidenza fra il giudizio e la soggettività. Si tratta di un punto che non sta alla realizzazione dei nostri giudizi, delle nostre etichette e delle nostre opere. È anche il punto della filosofia; la forza della filosofia è la sua impotenza. Chi si fa attraversare dalla filosofia è uno sfasato. La sfasatura è legata all’esitare a dare un giudizio: l’incontro non è risolto dalle etichette che ci appiccichiamo reciprocamente.
 
La nascita è la festa. Mentre prestiamo la nostra soggettività all’obiettivo che ci prefiggiamo, la nascita, il compleanno e anche il compleanno di Gesù (Natale) ci fanno constatare il punto di cedimento della logica della prestazione. Si tratta di astrarre la nostra festa, la quale è una condizione effettiva che non può essere condivisa. Ciò vuol dire che ci rimanda al nostro essere-insieme, alla comunità e non a qualcosa di astratto che si trova in un mondo dietro al mondo.
 
La festa è un momento di perfetta libertà e in quanto tale non può essere un’idea, non può essere una rappresentazione. Dio non è astratto, Dio è reale, è assente. Ciò che è comune è di là dal bene e dal male.
 
Si tratta di contemplare la vita senza poterne fare parte. Vi è una salvezza immanente: salvarsi la vita salvandosi dalla vita.
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