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14 Aprile 2012, 10.30

Lettere

Quel che si cela dietro la parola «debito»

di Alberto Cartella
Nella riflessione/saggio del laureato in Filosofia Alberto Cartella si esaurisce il detto e non detto intorno al concetto di 'debito', vero e proprio pilastro linguistico e fattuale della nostra società moderna
 
Che cosa si nasconde dietro la parola “debito”? Si sente costantemente pronunciare da molte parti (non solo dagli economisti) e spesso è data per scontata e ovvia; l’atteggiamento è quello di chi pensa di sapere per certo una cosa, senza che venga messa in discussione. Spesso sentiamo dire che “bisogna ridurre il debito”.
 
Il debito economico ha a che fare con una manipolazione del tempo ed è un impegno del tempo. L’immaginario monetarista (modo in cui inconsapevolmente ci rappresentiamo il mondo) fa leva sul debito per impegnare il futuro, cioè per estendersi fino a quel tempo che non c’è ancora.
 
Nell’Occidente infatti il futuro è pensato come un continuum e come un vuoto da riempire con le proprie profezie monetarie. La prestazione fondamentale dell’ideologia monetarista (di cui tutti siamo parte) è la neutralizzazione del tempo: il futuro è visto come un tempo quantitativo, cioè come il tempo che va da oggi al giorno in cui il debito sarà saldato.
 
Ma vedere il tempo come riempito dalle rette del debito significa astrarre dal tempo nelle sue qualità caratteristiche, cioè dal tempo come di fatto sarà. Fare ciò vuol dire inserire una forma di contabilità del tempo. La neutralizzazione del tempo va vista da un lato come risposta al timore originario dell’umanità, ovvero il timore dinanzi al non sapere; dall’altro lato vi è il timore del monetarismo occidentale, che è quello di perdere il controllo sul denaro (valore, rimborso, ritorno, interesse).
 
La parola 'finanza' rimanda al concetto di fine ed esprime la possibilità di porre fine a qualcosa e fare come se i fatti non esistessero. L’immaginario monetarista infatti è l’immaginario della solvibilità del debito. Vi sono tre promesse legate al debito: la promessa del denaro, la promessa della sua restituzione e la promessa che il debito è estinguibile per sua natura, cioè sarà estinto se mi attengo ai pagamenti. Vi è quindi un diritto di porre fine, che è un diritto immaginario nella misura in cui non esiste mai denaro sufficiente per pagare il debito. Il denaro vorrebbe essere la fine del debito, eppure è sempre insufficiente a colmarlo.
 
Una delle implicazioni visibili legate alla finanza è la realizzazione continua e costante di denaro liquido e un’emergenza che abbiamo sentito dichiarare più di una volta è: “Le banche non hanno denaro!”. Analizzando questo fatto si vede che la produzione di merci e il reclutamento di forza lavoro, che dovrebbero essere centrali, passano in secondo piano, in quanto per essi ci sono le riserve di povertà nel mondo; ciò che è centrale è invece la produzione di denaro e la produzione di debito.
 
Questo vuol dire che i lavoratori potranno essere liquidati come vite in eccesso. Ciò si può vedere portando il pensiero al termine ‘crisi’, che dovrebbe essere impiegato per indicare un momento di eccezione, qualcosa che rompe la norma, limitato a un segmento breve e preciso di tempo. Negli ultimi decenni, invece, la crisi si è trasformata da eccezione a normalità a cui siamo tenuti ad attenerci e a cui siamo vincolati.
 
La crisi è un’eccezione e il divenire normale dell’eccezione è la forma di sovranità economica che si esercita oggi sulla nostra vita. Essa passa attraverso la leva del debito ed è una sospensione della normalità, a sua volta sospensione dei diritti vigenti. Si è sentita spesso anche la frase “occorre fare sacrifici” e la parola sacrificio va vista in relazione alla possibilità di sospendere i diritti.
 
Essere richiamati alla necessità e all’obbligo di fare sacrifici vuol dire essere richiamati al fatto che i propri diritti (diritti di lavoratore o di risparmiatore) non valgono più; essi sono sospesi magari per un lasso di tempo, ma sono sospesi ed è sempre per un atto di grazia che ritornano in vigore. Quando si usa la parola ‘debito’ in termini economici sarebbe meglio parlare di ‘stato di debito’, ovvero di un consolidarsi del debito; esso non è più un’operazione ma una condizione vincolante.
 
Il debito economico diventa primariamente un’occasione di potere in nome di una sua risoluzione fittizia e il meccanismo funziona, perché il debito è dichiarato solvibile; infatti, se fosse insolvibile tutto questo non funzionerebbe. Il debito è uno strumento di manipolazione politica che aggrava la situazione di minorità in cui molti paesi già si trovano e questa pratica di dominio esercitata attraverso il debito ha portato a un feroce squilibrio mondiale.
 
Un tempo la società si prendeva carico dei poveri, i quali venivano considerati un peso per la società: essi venivano messi in strutture indeterminate da un punto di vista giuridico, le quali erano un misto fra l’ospedale e il carcere (quindi non si sta dicendo che un tempo le cose andavano meglio). Oggi, invece, succede il contrario: è la società che rovescia sui poveri il debito mondiale chiedendo a loro di lavorare di più, in condizioni peggiori e con meno diritti perché la macchina possa andare avanti.
 
Gli indebitati sono legati alla necessità dell’estinzione stessa del debito, il quale funziona da un punto di vista immaginario. Esso in realtà funziona solo se è inestinguibile ed è nell’interesse del creditore che il debito non si estingua mai. All’estinzione del debito corrisponde un’estinzione del potere sul debitore, il quale caratterizza e realizza il debito come infinito, ma affermando la sua fondamentale finitezza. La realtà e l’operatività del denaro vanno congiunte alla realtà del debito. La moneta non è mai sufficiente per estinguere un debito e porta a far sì che una condizione di eccezionalità (come il debito dovrebbe essere) diventi la norma.
 
La parola ‘debito’ indica originariamente qualcosa che si ha solo perché non la si possiede, perché la si possiede grazie ad altri. Questa parola va considerata anche al di là del suo aspetto economico e ciò porta al pensiero dell’esistenza di qualcosa all’interno delle nostre vite che è indisponibile all’appropriazione monetaria che viene impartita come unica appropriazione possibile.
 
C’è una radice indisponibile all’interno delle vite umane che ci porta fondamentalmente al legame che noi intratteniamo con gli altri e che non ha nulla a che vedere con la solitudine dell’individualismo moderno. Per la finanza il debito è una questione di rimborso, di moneta e di pagamenti. Non si fa altro che risolvere tecnicamente un problema, l’insolvibilità del debito. Vi è una riduzione del debito a contabilità dovuta alla dimenticanza della vera essenza del debito che riguarda la nostra origine e la nostra provenienza, cioè il nostro legame con gli altri, il quale ci precede.
 
È necessario quindi fare un tentativo linguistico: provare a ragionare sul debito separandolo dall’idea di pagamento. Il debito originario è un debito che non si paga, inestinguibile e non riportabile alla contabilità del calcolo monetario. Esso è un debito non per qualcosa, non nei confronti di qualcuno ma un debito per nulla. Esso è un debito che ci precede e che non abbiamo deciso di contrarre, inseparabile dalle nostre vite. In varie manifestazioni in Spagna (e non solo) si è innalzato un grido da parte delle generazioni più giovani: “Ci avete traditi, restituiteci la nostra vita!”.
 
L’immaginario monetarista finisce infatti per separare ciascuno dalla propria vita proprio nel momento in cui sembrava promettere l’accesso più opportuno, semplice e agevole a essa. La radice indisponibile è una consumazione senza consumo che consiste nel riuscire a rigiocare il debito originario contro l’appropriazione calcolante della finanza, riappropriandosi della materialità delle esistenze annullate altrimenti in un’astrattezza universale in cui i diritti sono sospesi.
 
Queste considerazioni costituiscono il “guadagno” (senza consumo) che ho ricevuto da un’assemblea e da un convegno con il professor Gianluca Solla, docente di Filosofia teoretica all’università di Verona e visiting professor presso il Center for Advanced Studies della Ludwig-Maximiliam-Universität (München).
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