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16 Gennaio 2013, 10.30

L'angolo del filosofo

La nevrosi dell'incomprensione e dell'interpretazione

di Alberto Cartella
Partendo dagli articoli scritti negli ultimi mesi e prendendo come esempio anche la visione dei film, il giovane filosofo Alberto Cartella prospetta una lunga e dettagliata analisi sulla capacità di un testo di sedimentare conoscenze, sganciandosi spesso dall'immediatezza
 
Chi si pone davanti a qualcosa o qualcuno, per esempio uno che è stato etichettato come psicotico, volendo comprenderlo, cioè volendo comprendere il linguaggio psicotico come se fosse un testo, credo sia in una posizione nevrotica (cercherò di chiarire nel proseguo dell’articolo di chiarire questa argomentazione, non affrettatevi nelle conclusioni).
 
Comprendere lo psicotico vuol dire cercare le cause del suo discorso e ciò significa oggettivarlo. Una posizione in controtendenza a questa è quella di un malinteso fondamentale.
 
Partite dall’idea (uscendo dall’esempio dello psicotico) che non state comprendendo il testo (mi rivolgo a coloro che mi hanno riferito di non riuscire a comprendere e interpretare i miei articoli). Il malintendere è fondamentale. Non aver capito il testo porta all’interrogazione e il malinteso fondamentale porta ad una ricchezza. L’errore apre il testo, la comprensione intellettuale invece è statica.
 
Gli articoli che ho tentato di costruire finora non possono essere oggettivati. Quando l’atteggiamento che si assume è legato al voler interpretare tutto per comprendere ciò verso cui ci si approccia, il risvolto di questo è perlopiù aggressivo.
 
Seguendo questa tendenza per esempio davanti a un film, si cerca di ridurlo alla trama. Si riduce il film al suo contenuto e gli elementi del film, come per esempio il flash back, sono visti come funzionali al racconto.
 
Si legge un articolo esclusivamente per comprenderne il contenuto, il significato e quello che si cerca è l’intesa immediata. Lo si interpreta sulla base di ciò che già si sa e se ciò che leggiamo non trova comunicazione con ciò che abbiamo letto, sorvoliamo come se nulla fosse, vi è indifferenza. Seguendo ulteriormente questa tendenza l’articolo è importante esclusivamente per ciò che ha di significativo per la nostra vita.
 
All’interno di questo movimento vi è un presupposto metafisico: ci si inganna che ci sia un metalinguaggio, ovvero qualcosa di completamente astratto al di là del linguaggio al quale si può accedere attraverso il linguaggio e la sua comprensione. Si tratta di una concettualizzazione continua e di una riduzione a concetti di ciò con cui veniamo a contatto.
 
Vi è un etichettamento continuo funzionale ad ampliare il nostro bagaglio di conoscenze che a sua volta serve per aumentare la nostra capacità di decisione. Si tratta della costruzione di una finalità che cerca di risolvere l’inquietudine che ci accompagna ponendoci continuamente degli obiettivi da raggiungere: si vuole sempre di più e ci si affida ad un processo ascensivo.
 
La conoscenza è una realizzazione. La vita è legata alle varie realizzazioni alle quali puntiamo e queste realizzazioni devono portarci al benessere, all’esser bene. Ma l’esser bene (il benessere) chi lo stabilisce? A quale punto di vista è legato? Chi cerca il benessere si affida a qualcuno che possiede un corpo di conoscenza e un sistema concettuale per la cura delle anime.
 
Molto spesso di ciò si occupano le psicologie degli psicologi. C’è qualcuno che sa cos’è il benessere e al quale possiamo decidere di affidarci per conformarci a ciò che si richiedere per raggiungere questo ideale. Si tratta di una corsa anche molto lenta fatta di concettualizzazioni, di etichette. Si tratta di sintomi sui quali bisogna lavorare per ristabilire la normalità, il benessere. Si tratta di un meccanismo concettuale che permette un’applicazione terapeutica da parte di appropriati specialisti, e può essere anche interiorizzata dall’individuo afflitto dalla condizione anormale, di malessere.
 
L’interiorizzazione avrà di per se stessa una efficacia terapeutica. Il meccanismo concettuale potrà essere studiato in modo tale da suscitare un senso di colpa nell’individuo. Sotto la pressione di questo senso di colpa, l’individuo arriverà ad accettare soggettivamente la concettualizzazione della sua condizione che i terapeuti gli mettono davanti; il suo intuito si accresce e la diagnosi diventa soggettivamente reale per lui (Berger e Luckmann).
 
Credo sia importante lavorare anche sul senso di innocenza, perché sul senso di colpa lavoriamo già parecchio. Chi è occupato nella realizzazione di sé è concentrato sulla costruzione di sé che può giungere a livelli di astrazione sempre più alti. Si tratta appunto di un processo ascensivo che punta ad un piano superiore. Chi si trova su questo piano superiore non vuole scendere e rischia di diventare pericoloso per sé e per gli altri.
 
A me interessa ciò che non sta alla realizzazione di sé. Si tratta di ciò che nella realizzazione stessa non sta a questa realizzazione, il non realizzato. Noi riflettiamo a posteriori sulle azioni che abbiamo compiuto, ma questo a posteriori c'è fin dall'inizio. Linguisticamente non si può fare altro che inserire riferimenti temporali, ma ciò a cui sto facendo riferimento una faglia, un vuoto che è legato al visivo, all'immagine in quanto tale.
 
Tornando ai film, credo che quelli belli, ovvero non esclusivamente funzionali a farci divertire, ci riportino al movimento statico delle immagini. Si tratta di film che nel momento in cui li stiamo guardando vorremmo rivedere.
 
Gli articoli che ho scritto in questi mesi sono delle narrazioni, dei racconti e hanno a che fare con il logos, ma sono esercizi per far emergere l'aspetto disnarrativo che è legato al visivo e non al linguistico. Questo non vuol dire rinunciare a parlare o a scrivere, ma si parla e si scrive perché si confida che ci che si dice faccia sedimentare quel qualcosa che non si può dire. Quel vuoto a cui faccio riferimento, già dicendo che è un vuoto, vi è il rischio di dargli contenuto, in quanto la parola vuoto è sovraccarica di significati.
 
L'argomentazione che sto tentando di sostenere ha come uno dei punti in costellazione quello che non si può comprendere tutto e che c'è qualcosa che non sta alla comprensione e all'interpretazione, c'è qualcosa che sfugge, qualcosa che nel logos non sta al logos stesso, ma è ciò che ci attraversa e ci trasforma. Si tratta del punto cieco delle immagini. Questo non vuol dire rinunciare alla comprensione e all’interpretazione.
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