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10 Febbraio 2014, 10.05

Quaderni di Cinema

A proposito di Davis

di Nicola Cargnoni
I fratelli del Minnesota tornano a un cinema più intimistico, cercando di realizzare un ritratto dell’ambiente in cui si incrociavano le vite e i destini dei protagonisti della scena folk statunitense all’inizio degli anni Sessanta

Lo sguardo dei fratelli Coen continua a posarsi su figure di fragili antieroi.

A parte il folk di forte matrice politica, che godeva di una enorme cassa di risonanza anche a livello di pubblico, esisteva quello del Greenwich Village, zona di New York in cui giovani operai, artisti e disoccupati si ritrovavano in piccoli locali fumosi al suono di chitarre acustiche.
Il personaggio del protagonista è ben delineato, grazie anche all’ottima interpretazione di Oscar Isaac.

Llewyn Davis si sente un artista a tutto tondo, ma nella realtà non è nulla.
È cantante folk, ma si limita ad avere qualche applauso negli scantinati del Village. Rifiuta qualsiasi compromesso lavorativo, anche nell’àmbito musicale, mantenendo una netta linea di demarcazione tra la propria musica e il mondo reale. 

Meno riuscito il personaggio interpretato da John Goodman; decisamente indigesta la Jean Berkey impersonata da una pur brava Carey Mulligan.
È necessario evidenziare come, in questo caso, non risulti del tutto efficace il gioco di maschere, tipico dei lavori dei Coen; la rievocazione degli ambienti è invece ben fatta, soprattutto per quanto riguarda le atmosfere ovattate che danno vita alle vicende dei protagonisti, in quella sospensione tra onirico e reale ottenuta grazie anche all’uso di una fotografia che utilizza colorazioni tenui, non troppo nette e che trasmettono una sensazione di vintage ai contorni di persone e cose, dando anche l’impressione di essere all’interno di un sogno (o meglio, incubo) del protagonista.

Ma, nel complesso, bisogna ammettere che i fratelli Coen non soddisfano a pieno le aspettative che è giusto avere su un loro nuovo lavoro; la narrazione risulta piuttosto slegata, non si capisce quale sia il filo da seguire e, francamente, il personaggio non attua nessun cambiamento in sé stesso e nemmeno in chi gli è attorno.
La sceneggiatura non risulta essere un romanzo di formazione, ma nemmeno il suo contrario.

È, piuttosto, un “Davis contro tutto” o, ancor meglio, un “Tutto contro Davis”, ma su una linea narrativa piuttosto piatta.
L’antieroe è così “sfigato” da rasentare l’inverosimile. Non si capisce quale sia il concetto alla base di questa pellicola e diciamo la verità: il nome Coen è un’arma a doppio taglio, da un lato si è spinti ad avere altissime aspettative, ma dall’altro lato è doveroso ammettere che se questo film fosse stato realizzato da un regista con meno appeal, potrebbe risultare quasi insignificante e sarebbe facilmente stroncato da pubblico e critica.

Apprezzabilissima invece la implicita denuncia che i Coen fanno a quel che è diventato il mondo dell’arte, partendo proprio da quegli anni Sessanta in cui la moderna industria musicale affonda le radici: Davis si avventura a Chicago, dove suona una stupenda canzone davanti a un importante produttore, nel silenzio di un ampia sala da concerti.

La scena è emozionante, ma la sentenza del produttore è un macigno per il protagonista e per lo spettatore.
E dopo l’ennesima delusione Davis torna al Village, a suonare nei soliti locali fumosi dove, in una scena ben riuscita, si intravede la sagoma di un giovanissimo Bob Dylan ai suoi esordi musicali.
Impossibile non provare un brivido.

Per il resto, è doveroso dirlo, si poteva fare decisamente meglio.
La sceneggiatura assai debole è bilanciata da un’ottima interpretazione del protagonista e da alcuni accorgimenti sicuramente positivi.

Valutazione complessiva: ***.

 
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