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27 Febbraio 2015, 12.47

Quaderni di Cinema

«Boccaccio» sì, «Maraviglioso» mica tanto

di Nicola 'nimi' Cargnoni
Avvalendosi di un cast popolare per attirare le nuove generazioni in sala, i fratelli Taviani confezionano un affresco senza tempo sul confronto tra i giovani e le crisi epocali, mancando un po’ il bersaglio

Il film si apre con le immagini di un appestato che si getta dal Campanile di Giotto per anticipare l’orrenda morte che lo aspetta.
Siamo nella Firenze del 1348, ma il campanile sarebbe stato completato soltanto nel 1359.
È soltanto uno di alcuni degli errori storici e filologici che caratterizzano soprattutto la prima parte del film. Del resto colpisce anche l’immagine che traspare della Firenze di metà XIV secolo: tantissima pietra, ampî spazi aperti e veramente pochi scorci che invece avrebbero dovuto caratterizzare gli scorci di una città medievale: non ci sono vicoli, niente capanne o abitazioni in legno, nessun orto e nessun animale da cortile per strada (a parte un paio di maiali morenti) come invece avrebbe dovuto essere in una delle più grandi metropoli dell’epoca.

La Firenze dei giorni della peste era sicuramente un luogo dove la gente non circolava facilmente, ma l’economia, il mercato e il fermento che la caratterizzavano non sono ben rappresentati dal clima spettrale che emerge dal film.
Gli interni intonacati a fresco, con pareti lisce e candide, fanno il paio con l’enorme casa dove i dieci “novellatori” si riuniscono a Fiesole, per sfuggire dalla malattia: molto più simile a una masseria o a una casa coloniale di fine Ottocento, che a un caseggiato rustico e rurale del Trecento.
Per non parlare degli enormi teli bianchi che i giovani trovano a copertura e protezione dei mobili, un’abitudine non certo appartenente a un’epoca dove le lenzuola di cotone non erano considerate un vezzo per proteggere il legno dalla polvere.

Allegoria dei giovani italiani che cercano un riparo dalla terribile crisi che stiamo vivendo, il film dei Taviani adatta la favola di Boccaccio ai giorni nostri, ambientandola nel passato, ma utilizzando un registro e un cast che la attualizzano, comprendendo anche certi passaggi linguistici per i quali Boccaccio sta probabilmente sbattendo la testa sulle pareti del paradiso.

Ci sarebbe da discutere molto sulla necessità di voler attirare un pubblico di giovani: se non altro la regia dei Taviani non si discosta per nulla dai capolavori che li hanno resi tra gli autori più grandi del nostro cinema.
Infatti da un lato i fratelli rinnovano la cifra stilistica tanto cara al loro pubblico, ma dall’altro ottengono un amalgama che risulta essere slegato e non molto coerente, trasformando il film in un’arma a doppio taglio che rischia di scontentare il pubblico di ieri e di oggi.

Partendo da ciò che risulta essere più debole, si può dire che le parti peggiori del film sono proprio quelle in cui assistiamo ai giovani che decidono di lasciare Firenze per radunarsi nella masseria fiesolana e per raccontarsi storie tristi, felici, sconce e divertenti.
La recitazione è, però, decisamente sottotono. Gli errori storici e filologici riguardano proprio l’aspetto diegetico del plot narrativo.
In soccorso dei fiorentini scappati a Fiesole ci sono le novelle raccontate, la cui successione emerge, salvifica, a dare un tono alla pellicola, anche se i Taviani non rispettano affatto l’ordine con cui le stesse sono disposte nel Decameron.

La prima novella è quella che conferma l’assoluta inadeguatezza di Riccardo Scamarcio al mestiere di attore.
O, almeno, per quanto riguarda il cinema d’autore che si discosta dalle commediucole “mocciane” e mocciose.
Riccardo “bellosguardo” ha la stessa espressione per tutta la durata del tempo e la pur brava Vittoria Puccini è poco penetrante, molto compassata.

I due trasformano la vicenda di Gentil de’ Carisendi e Monna Catalina
in una noiosa alternanza di sguardi freddi, poco partecipi e molto poco boccacciani.
Per fortuna Kim Rossi Stuart incarna uno strepitoso Calandrino, impennando il livello del film che per la prima mezzora è, onestamente, in abbondante deficit di ossigeno, di idee e di gradimento.

A seguire vi sono le novelle di Ghismunda e Guiscardo e quella della badessa con le brache del prete, dove almeno le ambientazioni sono storicamente corrette e dove assistiamo ad alcune buone recitazioni soprattutto da parte di Kasia Smutniak e Lello Arena.

A concludere il ciclo delle cinque storie c’è quella che senza dubbio regala la sufficienza al film, aiutandolo a uscire da una districata selva di contraddizioni: nella novella di Federigo degli Alberighi, lo stile dei fratelli emerge in tutto il suo spessore.
L’equilibrio delle recitazioni è esaltato dalle inquadrature delicate che sono il marchio di fabbrica dei Taviani. L’intimismo, la delicatezza e il lirismo fanno da cornice alla vicenda del cavaliere e del suo falcone.

La regia non ha bisogno di commenti,
né certamente delle mie lodi: è ciò a cui siamo stati abituati dai Taviani. È pittorica, fresca, accompagnata da musiche “hitchcockiane” nei momenti salienti. È tecnicamente un lavoro ben confezionato, anche se gli intenti che stanno a monte, purtroppo, lo indeboliscono.
Complici anche alcune recitazioni penalizzanti, il film non sembra essere lo stesso di chi, soltanto tre anni fa, ha vinto l’Orso d’oro a Berlino con quella pietra miliare del cinema che è «Cesare deve morire»; vero che ogni opera non dev’essere confrontata ad altre, vero che i Taviani possono permettersi un mezzo scivolone, ma «Maraviglioso Boccaccio» risulta poco convincente.

Ad ogni modo non è un caso che Boccaccio e il Decameron siano i soggetti di alcuni film italiani tra i più significativi.
La fuga dal quotidiano alla ricerca di una ritrovata voglia di vivere è un tema che lega tutte le epoche della nostra storia, soprattutto quelle che hanno visto grossi momenti di crisi. Nel 1348 così come nel 2015.
Lo stesso atto di entrare in un cinema per vedere un film si può decisamente accostare alla situazione che vivono le sette ragazze e i tre ragazzi raccontati dal Boccaccio. Isolamento dal mondo e narrazione di novelle sono i due elementi che caratterizzano la fuga dalla realtà e la rinascita che i giovani protagonisti vivono nel Decameron, proprio come chiunque esce rigenerato da una sala cinematografica. Peccato che stavolta, nonostante un’oggettiva bellezza delle immagini “dipinte” dai Taviani, dal cinema si esca con non pochi dubbi.

Valutazione: ** ½. 

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

In uscita giovedì 26 febbraio (da segnalare): Vizio di forma, Maraviglioso Boccaccio, The repairman.

Già nelle sale (da segnalare): Un piccione seduto su un ramo…, Timbuktu, Whiplash, Birdman, Biagio, Educazione affettiva, Gemma Bovery, Turner, Difret, Piccoli così, Still Alice.

Per conoscere la programmazione della provincia:

1.    Andare su http://www.mymovies.it/cinema/brescia/
2.    Appare la lista dei film presenti in città e provincia.
3.    Per ogni film è segnalato il paese o il cinema in cui lo si può trovare.

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