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23 Giugno 2014, 09.48

Quaderni di Cinema

Un insolito naufrago... nel cinema d'estate

di Nicola Cargnoni
È uscito in questi giorni nelle sale italiane il film commedia «Le cochon de Gaza», del 2011, diretto dal francese (di origini uruguaiane) Sylvain Estibal

Come ogni “finale di stagione” cinematografico, ecco apparire nelle sale italiane alcuni film (anche di pregevole fattura) distribuiti con notevole ritardo rispetto alla loro uscita nei rispettivi paesi d’origine.
È il caso di «Synecdoche, New York», il capolavoro del regista Charlie Kaufman, girato nel 2008, interpretato da un Philip Seymour Hoffman in grande spolvero e arrivato nelle sale italiane solo questo giovedì; inutile dire che l’operazione puzza molto di tributo all’attore recentemente scomparso.
È anche il caso di «Un insolito naufrago nell'inquieto mare d'Oriente», titolo italiano della commedia francese (e di produzione tedesca e belga) del regista Sylvain Estibal.

Jafar, il protagonista, è un pescatore palestinese che vive sulla striscia di Gaza. La crisi ittica che colpisce quella parte di Mediterraneo, sommata alle severe restrizioni degli israeliani (i piccoli pescherecci palestinesi non possono uscire più di 4 km dalla costa), fanno sì che nelle reti ci siano soprattutto spazzatura e oggetti che cadono dalle navi.

Un giorno, però, nella sua rete rimane impigliato un maiale vietnamita, probabilmente caduto da qualche cargo.
Questo episodio è una svolta nella vita di Jafar che, assillato dai creditori, vorrebbe monetizzare il ritrovamento.
Animale impuro sia per i musulmani, sia per gli ebrei, il maiale riuscirà a essere fonte di guadagno per Jafar, in una maniera del tutto inaspettata, grazie anche all’amicizia con una ragazza russa che vive in una delle colonie israeliane.

Tra molte risate e diversi momenti di riflessione, il film si dipana su un sottile filo di equilibrio tra surreale, fiabesco e reale.
Ci si muove sul territorio della striscia di Gaza e quindi sul territorio degli scontri religiosi, sociali, civili. La vita di Jafar è “limitata”, non solo dalle regole di pesca, ma anche dalla presenza di soldati israeliani in casa, dal muro della striscia di Gaza, dalle restrizioni della propria religione e dagli spazi ristretti entro cui può muoversi.
Il regista corre un grosso rischio e “scherza col fuoco”, per così dire. E lo fa in maniera azzeccata, vincendo questa sfida e riuscendo a creare una commedia sulle ipocrisie e sui limiti che colpiscono la vita delle popolazioni di quei luoghi.

Il grosso e simpatico maiale si fa (paradossalmente) elemento di unione tra le due culture, sebbene entrambe lo ritengano (almeno in teoria) un animale impuro.
Il farsesco si fa portatore di quell’analogia con la realtà, allegorizzando molto sui paradossi e sulle situazioni “surreali” che caratterizzano le “vite al confine” di palestinesi e israeliani.

Fino a un finale quasi assurdo, se vogliamo un po’ “zavattiniano”, dove l’incontro di più culture non lascia intendimenti a falsi buonismi o a prevedibili “volemose bene”, ma è un finale intriso di poesia, di sogno, di un qualcosa che si realizza sullo schermo, qualcosa che però sembra impossibile potersi realizzare nella realtà: una lacrima dopo tante risate.
Riuscito, divertente, delicato e carico di sensibilità. ***½

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