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11 Gennaio 2015, 09.03

Lutto nel cinema

Rosi, il maestro-coraggio del cinema che fu

di Nicola ‘nimi’ Cargnoni
Prima che un grande regista, Francesco Rosi era uno di quegli italiani come ce ne sono pochi. Uno di quegli italiani che rimpiangeremo per la sua integrità, il suo spessore e, soprattutto, il suo coraggio.

Se n’è andato a 92 anni uno dei pilastri del cinema italiano d’inchiesta.
 
Era ormai fermo da quasi vent’anni, ovvero dal 1997, anno in cui ha firmato «La tregua», il suo ultimo film che voleva essere un tributo al Primo Levi di «Se questo è un uomo», ma che è stato accolto in maniera molto contrastante dalla critica.
Prima di iniziare la sua carriera cinematografica, Rosi ha accumulato una serie di esperienze che lo hanno portato ad avere un vissuto che gli avrebbe poi permesso di “vedere” il cinema da angolazioni inedite.
 
È studente di giurisprudenza, è illustratore di libri per ragazzini, trova lavoro nell’ambiente di Radio Napoli e lavora come assistente per alcuni spettacoli teatrali della sua città. Si immerge nella vita di tutti i giorni, ponendosi a confronto con la realtà del quotidiano e avvicinandosi anche alle problematiche che poi avrebbe inseguito lungo tutta la sua vita cinematografica.
 
È assistente di regia di Luchino Visconti nella realizzazione di «La terra trema» e di «Senso».
Il suo esordio alla regia risale al 1958, quando firma un’opera prima destinata a raccogliere un grandissimo consenso di critica e pubblico: «La sfida» vince il Premio speciale della giuria al festival di Venezia. È un film duro, energico, a tinte fortissime e basato su un fatto di cronaca reale: narra la storia di un contrabbandiere che decide di fare il salto di qualità, passando all’organizzazione criminale che controlla il mercato ortofrutticolo a Napoli. Con questo lavoro Rosi realizza una regia capace di mantenere alta la tensione e di mischiare l’azione all’intento semi-documentaristico.
 
Il boom economico aveva messo in moto l’enorme macchina della modernizzazione italiana e Rosi si è trovato a fare cinema proprio nel momento in cui stavano emergendo tutte le contraddizioni e le macchie di quel grande affresco socio-economico che era l’Italia a cavallo degli anni Sessanta.
Il successo di «La sfida» lo spinge a continuare sul filone del film sociale e d’inchiesta.
L’opera seconda è «I magliari», che riprende la tematica del contrabbando, mettendo però a fuoco l’immigrazione italiana nella Germania dello sviluppo economico. Già da questo film, il cui protagonista è Alberto Sordi, Rosi avrà il privilegio di avvalersi dei più grandi attori italiani dell’epoca.
 
Infatti è con Gian Maria Volonté che nel 1962 realizza il suo primo, immenso capolavoro «Salvatore Giuliano»: del bandito utilizza il nome e la figura, ma si tratta principalmente di un film sulla Sicilia, sul banditismo, sulle collusioni tra politica, economia e mafia. In questo lavoro Rosi si avvale di un intreccio su più piani temporali, oltre che di una fotografia che è funzionale alle fasi narrate: ora assume un tono evocativo là dove a scorrere sullo schermo sono i ricordi, ora assume un aspetto televisivo là dove c’è la cronaca del processo. Un film che è, senza dubbio, uno dei più importanti della storia del cinema italiano e che consacra Francesco Rosi nel Gotha del cinema italiano.
 
Da quel momento in poi Rosi vive un’ascesa artistica che non lo porterà mai a scendere a compromessi o a realizzare film che non richiedessero un coraggio pari solo all’impegno necessario per affrontare certe tematiche. Dalla sua ha anche la fortuna di essere un cineasta prolifico e instancabile, così in due anni realizza «Le mani sulla città» e «Il momento della verità»: il primo, in particolare, è un’altra pietra miliare. Cupa, frenetica, dai tratti documentaristici, è una pellicola rivelatrice: un palazzo crolla e il suo costruttore, anziché passare i guai, diventa assessore all’edilizia. Oggi più che mai possiamo comprendere il valore e la portata di un film così ferocemente politico, meritevole di un Leone d’oro a Venezia.
 
Rosi si concede una pausa e in sei anni realizza soltanto il fiabesco «C’era una volta», abbandonando le tematiche sociali, ma non i grandi attori, considerando che si avvale di Sophia Loren e Omar Sharif.
Ma nel 1970 riprende il filone dell’inchiesta e, in successione, realizza «Uomini contro», «Il caso Mattei» (palma d’oro a Cannes ex aequo con un altro film italiano), «Lucky Luciano», «Cadaveri eccellenti», «Cristo si è fermato a Eboli» e «Tre fratelli» (1981), che di fatto formano la spina dorsale del cinema italiano degli anni Settanta.
 
Sono tutti film fondamentali perché affrontano, ognuno, fasi diverse della storia italiana, ma senza mai abbandonare il focus sui rapporti umani e sulle dinamiche storiche, civili e antropologiche che hanno caratterizzato la società italiana dal Sessantotto in poi. C’è la guerra, c’è la cronaca, c’è l’indagine sulla criminalità organizzata, ci sono gli anni di piombo con il loro carico di poteri occulti e di mistero. Ma, soprattutto, c’è la collaborazione con Gian Maria Volonté, che è un marchio di qualità nel cinema di Rosi, e quella con Tonino Guerra, l’indimenticato poeta che ha firmato molte tra le più importanti sceneggiature del cinema italiano.
 
L’opera di Rosi continua anche negli anni Ottanta e Novanta, anche se non è più caratterizzata da quella verve graffiante e indagatrice che anima tutti i lavori precedenti.
Ciò che colpisce, di Rosi, è quell’amalgama perfetto che raggiunge in molti dei suoi film. L’inchiesta viaggia su un filo conduttore molto simile al cinema documentaristico, avvalendosi anche di alcuni espedienti tecnici (fotografia e montaggio, in primis); ma la sceneggiatura e le grandi interpretazioni attoriali tengono i film di Rosi ancorati nell’area della fiction cinematografica, rendendo così i suoi lavori unici, difficilmente identificabili nei generi cinematografici classici, e irripetibili.
 
Rosi ha dimostrato di essere un grande regista ma, prima di tutto, ha concretizzato il suo essere un grande uomo e giornalista. Il suo piglio narrativo e cronachistico non è mai sconfinato nel favolistico, ma è sempre rimasto nei confini del pragmatismo; semmai la concretezza dei contenuti veniva affidata a forme accattivanti, molto vicine alla concezione hollywoodiana del cinema d’azione, senza mai ricalcarne lo spirito industriale e commerciale. 
Rosi ha reso popolare l’inchiesta. Se oggi si dice che la Commedia all’italiana ha saputo ritrarre i vizi, le virtù e l’essenza degli italiani, a me viene da rispondere che il miglior ritratto della nostra società, volenti o nolenti, emerge proprio dai film di Francesco Rosi.
 
Il suo sguardo indagatore non si è mai fermato sulla superficie, ma ha sempre scandagliato a fondo le dinamiche che hanno animato (e che animano) la società italiana, mettendo a fuoco sotterfugi, accordi, manovre, poteri occulti, collaborazioni potere-mafia, opportunismo e vigliaccherie. È stato fondamentale per il nostro cinema e l’Orso d’oro alla carriera, assegnatogli al festival di Berlino del 2008, fa il paio con il Leone d’oro alla carriera conquistato a Venezia nel 2012. 
Oggi non c’è da essere tristi, lo abbiamo avuto e ce lo siamo goduti. Sarebbe stato molto peggio se Rosi avesse continuato a fare disegni sui libri per bambini.
Grazie, Francesco.
 
 
Bibliografia consigliata:
 
MANCINO ANTON GIULIO, Francesco Rosi (con Sandro Zambetti), Il Castoro, Milano 1998.
MANCINO ANTON GIULIO, Schermi d'inchiesta - Gli autori del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino, 2012.
ROSI FRANCESCO, Tornatore Giuseppe, Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, Milano 2012.
BOLZONI FRANCESCO, I film di Francesco Rosi, Roma 1986.
 
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