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14 Febbraio 2014, 19.00

Libri

Pino Greco: appartenere alla Vallesabbia

di Leretico
Leggere il libro di Pino Greco intitolato “+ Alberi – Terroni” è stata un’esperienza particolare che ci ha fatto vivere un doppio incontro: quello con l’autore, di origine abruzzese, e quello con noi stessi

Un gioco di specchi in cui il rapporto tra cultura, idee e mondi diversi, in un continuo rimando reciproco, è il motore nascosto di tutte le narrazioni del testo.
La chiave iniziale di lettura potrebbe dunque ragionevolmente sembrare il confronto culturale.
Due Weltashauung si incontrano per caso nello spazio e nel tempo, come gli atomi epicurei per effetto del “clinamen”, il piano inclinato.

Si incontrano e si scontrano per produrre i fatti, la realtà, sintesi tra due modi di sentire e di vedere diversi, tra due culture in fondo distanti. Nonostante ciò, sin dall’inizio permane una certa dinamica eccentricità, un interessante divenire dialettico.

È nella lingua , quindi, che si materializza il mondo valsabbino di Pino Greco.
Un mondo che si comincia a sondare con cautela, con la tipica diffidenza di colui che è abituato ad apprezzare il minimalismo della prosa Sciasciana o Carveriana contrapposta al dannunzianesimo italico che tanto impregna di sé tutta la cultura del bel paese.

La lingua di Pino Greco è ricercata, ma non ci sentiamo di definirla veramente “dannunziana”; certamente è ricercata nel senso dell’attenzione piacevole e a volte compiaciuta per l’effetto poetico, che pure disegna con raffinatezza; lo è nell’uso volutamente preciso delle figure retoriche: campeggiano infatti anafore, ossimori e non si disdegnano le personificazioni e le elencazioni aggettivali.

Tuttavia, benché tali strumenti tendano ad allontanare l’autore dalla sua materia, non possiamo etichettare la sua lingua come “dannunziana”, perché i virtuosismi lessicali e l’iper-realismo manierato si condensano infine in un salvifico amore per la vita e per la valle.
La sua intenzione all’abbozzo pittorico è palesemente dichiarata, come pure il tentativo di catturare fotografie emozionali del mondo valligiano allo scopo di trattenerle il più possibile sulla retina della memoria.
Privilegia quasi sempre la paratassi, per non lasciare il respiro, per cumulare le sensazioni, le emozioni.
Ammettiamo la nostra disabitudine a tale ricchezza lessicale. Tuttavia intuiamo il tentativo di velare ciò che invece sottotraccia cerca con forza di emergere.

Sin dai primi passi, quindi, Pino Greco ci fa danzare davanti agli occhi i suoi protagonisti: fantasmi di un mondo perduto, disturbato da un invasore “stazzonato” e improbabile. Nel primo racconto, “Pòta”, entrano in scena parole dialettali: espressioni colorite e gergali divertenti se ascoltate da orecchio estraneo e non aduso.

Spesso l’autore si riferisce a oggetti “bucolici” o ad espressioni popolari particolarissime per suoni e immagini.
Intende però trasformarli tutti in strumenti creativi di quell’atmosfera di straniamento che già Flaiano, altro abruzzese, aveva saputo descrivere nella sua commedia intitolata “Un marziano a Roma”, sulle orme di un più antico Montesqieu creatore di quei Persiani a Parigi dipinti così bene nelle sue “Lettere Persiane” del 1721.

Nonostante il piacere e il divertimento della lettura, molto presto un movimento sotto la superficie comincia a palesarsi.
Un sottile disagio interiore si tinge a volte di toni decadenti, si avvolge in una musica funebre, verso una semantica assai diversa da quella dell’incipit.

In “Poiana”
si rivela infatti con forza questo tratto di “inconsapevole consunzione”, di senso di finitudine velata di malinconia e rassegnazione, “un compendio di vita e di morte”.
La morte si sovrappone e si intreccia all’aspettativa dell’esordio, come a riportarci coi piedi per terra, a indicarci una via di interpretazione alternativa, più vera, più disperata.

Ancora non siamo convinti.
Troppo presto, troppo facile. Quando ci offrono immediatamente ciò che ci aspettavamo rimaniamo quasi delusi, non ci accontentiamo, vogliamo scavare, scoprire.

Pino Greco fa suoi i temi tipici della cultura di sinistra degli anni settanta: la ricerca e la valorizzazione delle culture popolari, del dialetto che “non è solo vocabolario e grammatica”, ma anche “montagne, mestieri, interessi, devozioni, leggende, ordinamenti, passioni”.
Culture che si materializzano sulla pagina dipinta del mercato di Nozza, nel tratteggio in bianco e nero delle feste e della gastronomia locale, culture che si innestano con forza nelle parole osteria, salame, Groppello e spiedo: simboli di un mondo contadino e montanaro inquieto e in dissolvimento, segni di un mondo da recuperare e da iscrivere nella sempre troppo labile memoria.

Tuttavia, anche in questo caso e con gli occhi del lettore odierno, sembra predominare l’inquietudine, il correlativo oggettivo montaliano dei “legni calcinati dal sole”, nella solitudine quasi sacrale di Barbaine “spoglia e perennemente spopolata”.
Anche quando Greco parla di libertà e utopia nel racconto “Partigiani”, non si libera alla gioia della conquista portata a termine dopo lunga resistenza, ma si contrae per segnalarci le “travi marce”, i “santi slavati dalla faccia buona”, “il ricordo che scolora insieme al dilagare dei discorsi”.

Un senso di decadenza insomma che rivela anche un’inclinazione per la nostalgia piuttosto che per l’allegria, nella quale “gli odori e sapori della vita” sono irrimediabilmente “oltre il buio della valle”.

Sull’onda di questo impulso interpretativo ci imbattiamo nel racconto “Prediligo”, in cui Bagolino è teatro meraviglioso e al contempo misterioso di un altro tema che più volte incontriamo nell’intero libro: il vitalismo.
In questo pezzo si può dire che Greco assommi al meglio tutto il suo modo di sentire, anche se ci si accorge che i suoi personaggi parlano raramente, figure diafane appena abbozzate in un quadro divisionista di cui sfugge il senso se lo si osserva così da vicino.

Nonostante il racconto si dipani nel mistero del paese di pietra più caratteristico e storico della nostra valle, l’inquietudine e il languore decadente che abbiamo già assorbito nei racconti precedenti, non ci abbandonano mai.
La “Brigadoon” valsabbina compare magicamente sull’onda emozionale di un “flirt” frettolosamente consumato, evocazione delle forze vitali della natura di cui si è sin dall’inizio prigionieri e che raggiungono la loro “entelechia” durante il tradizionale carnevale bagosso.

“Perché dissolvere l’incantesimo?” si chiede l’autore.
È ovviamente una domanda retorica: da questo passo in poi, come oltre un precipizio, non riusciremo più a rompere quell’incantesimo di cui siamo da sempre precipitati.
Da questo momento, infatti, i racconti cambiano decisamente tono e siamo sempre più certi di aver bisogno di uno strumento interpretativo migliore per procedere innanzi, per diradare la nebbia in cui l’autore ci ha condotto.

I personaggi si fanno più dolorosi, legati alla vita in modo tautologicamente vitalistico ma tragicamente destinati alla fine.
Così compare, come dal nulla, Firmo, contrapposto al rampantismo moderno; compare il nostro narratore in veste sportiva da fondista, espressione del bisogno materiale e primitivo di contatto verace con la natura, in opposizione allo sciatto e consumistico rapporto che il moderno e ignorante cittadino è in grado di instaurare.

Compare il “Perlonc”, come “refugium peccatorum” del popolo di sinistra al cospetto di un vero e “impenetrabile montanaro disincantato” destinato anche lui, come quasi tutti i personaggi fantasma che abbiamo finora incontrato, a correre verso la morte.

Dopo il “Perlonc” la narrazione si fa piana, omaggiante.
Compaiono compagni di viaggio come Vallini, Navacchi e “l’Aldo”.
L’autore si impegna in una carrellata di personaggi vestonesi, importanti per la storia e la memoria del paese. Li dipinge molto efficacemente, ce li fa rivedere come in un caleidoscopio, senza mai perdere nel suo stile quell’impronta decadente che già abbiamo più volte indicato.

Cita il Polivalente di Antonella Ali e fotografa finemente la figura di Alfredo Bonomi, memoria storica della scuola e della società della valle.
Non dimentica nemmeno Gildo e la sua enorme ingenuità, che riconosciamo e ritroviamo nella nostra memoria di ragazzini, di studenti sorpresi e vagamente irridenti.

Infine, mentre leggiamo uno degli ultimi racconti intitolato “SlowValley”, ironicamente ad indicare la frenesia produttiva che ci impedisce di vedere la bellezza dei luoghi in cui viviamo, ci imbattiamo nella citazione di un artista svizzero di fine Ottocento, il pittore Anrnold Böcklin, e della sua opera per noi più bella: “L’isola dei Morti”.

È una rivelazione.
Ci accorgiamo che tutto il libro, dalle prime righe, si costruisce attorno alla metafora dell’Isola dei morti. Tutto risulta ormai chiaro, svaniti i dubbi e lo scetticismo iniziali.
Si svela il viaggio toccante verso il destino delle nostre felicità, delle nostre appurate infedeltà, delle nostre amate convalli montane, in fuga dalla storia e dalla presunta civiltà.

Ci rimane, in limine, un retrogusto che vogliamo cercare di definire: ci rendiamo conto, chiudendo il libro sul petto e guardando al soffitto per catturare un fuggevole pensiero che lo sintetizzi, che abbiamo fino all’ultima riga girato su una giostra di illusioni.
Pino Greco ha predisposto una serie di specchi tutt’intorno per guidarci nel suo mondo e allo stesso tempo sviarci con una fantasmagoria colorata di immagini e sensazioni.

Ha dipinto quadri ricchi e a volte ammiccanti della nostra valle, proiettando il suo io più nascosto, nella speranza che lo intravedessimo al di sotto dei temi a lui più cari.
Ha rischiato l’accusa di indugiare troppo nel particolare, di curare troppo l’effetto piuttosto che il legame con il reale.
Ha vinto in qualche modo la tentazione, sempre forte, di trasfigurare forzatamente il reale per piegarlo ad un’estetica lucidata ad arte solo per il rito della domenica.

Ci ha mostrato gli archetipi popolari della nostra valle, della nostra storia, e della nostra vita con un senso di melanconia verso un mondo irrimediabilmente perduto.
Ci lascia in conclusione un vago sospetto: l’aver a lungo desiderato di appartenere al mondo fatato della valle, alla Brigadoon valsabbina, senza essere mai veramente riuscito a raggiungerla prima della sua definitiva scomparsa tra le nebbie del tempo.

Leretico
 
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