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05 Gennaio 2015, 08.37

Quaderni di Cinema

«Mommy» è il quinto film di Xavier Dolan

di Nicola ‘nimi’ Cargnoni
Il venticinquenne regista canadese firma un lavoro sull’esasperato rapporto tra un figlio problematico e una madre incapace di gestire sé stessa e la situazione

Dolan è un regista tanto giovane quanto talentuoso: a soli 25 anni ha già realizzato cinque film, tutti di qualità, e alcuni di questi sono già passati dai festival più importanti.
Il suo ultimo lavoro, «Mommy», è il primo a essere distribuito (male, per altro) in Italia.

L’utilizzo del formato 1:1 (in realtà leggermente rettangolare verso l’alto) è il segno distintivo di una personalità che sa di poter sperimentare e di poter competere con registi di grosso calibro, nonostante la giovane età.
Non è un caso, infatti, se «Mommy» ha ricevuto il Premio della giuria [ex-aequo] con l’ultimo lavoro di Godard, «Adieu au langage», di cui ho avuto modo di parlare in precedenza; la decisione della giuria non è frutto dell’indecisione o dell’impossibilità di poter scegliere tra i due film, ma è probabilmente la conferma non si può fare a meno di guardare al futuro senza tenere un occhio al passato.

Certo, il punto di forza di Dolan
, rispetto al più “freddo” ed esperto Godard, è una freschezza che riempie di vitalità i suoi film.
In «Mommy» il regista riprende la tematica del rapporto madre-figlio, già affrontata in «J’ai tué ma mère», suo film d’esordio datato 2008 e disponibile solo in lingua originale; ma se nel primo film viene descritto il difficile (e violento) rapporto tra un figlio omosessuale e la madre, in «Mommy» i problemi del figlio sono patologici e ben più gravi, tali da metterlo in difficoltà con il mondo intero, piuttosto che limitarsi a un contrasto morale con la propria madre.

La prima parte è francamente fastidiosa, esagerata, sboccata e piuttosto inutilmente piena di volgarità, anche se bisogna rendere merito al fatto che i personaggi vengono subito tratteggiati in maniera netta e inesorabile.
Il figlio adolescente soffre di un disturbo che lo rende violento e completamente incontrollabile in situazioni sotto stress, mentre la madre è una donna di 46 anni, vedova, esuberante, che esprime una bellezza condizionata da una certa grettezza nei modi, nell’abbigliamento e nel linguaggio.
Diane è quella che chiameremmo una madre [fin troppo] moderna e Steve è quello che chiameremmo un figlio cretino.

Dopo l’ennesimo guaio causato da Steve
nell’istituto dove è tenuto in cura, Diane è costretta a riportarselo a casa: fin da subito emergono le pericolosissime dinamiche che regolano il rapporto dei due, un rapporto fatto di profondo amore misto a violenza, sbalzi di umore e insulti.
Il formato 1:1 non è soltanto una scelta stilistica: nel “quadrato” la vita è compressa, stretta, quasi claustrofobica.
C’è spazio soltanto per una persona alla volta, a meno che i personaggi non siano così vicini da poter entrare nell’inquadratura. Questo espediente aiuta a far emergere una certa corporalità tanto cara a Dolan che mischia la concretezza dei legami con un uso piuttosto abbondante dei rallenty e di altre sottolineature cinematografiche che evidenziano la fisicità del film.

Quando entra in campo il personaggio di Kyla, un’insegnante che abita di fronte ai due protagonisti, la narrazione subisce una notevole impennata, dando spazio a una serie di dinamiche e di rapporti molto ambigui, caratterizzati da sguardi, silenzi, sottintesi e “lacaniane” mancanze.
Kyla è in anno sabbatico e lei stessa deve affrontare un problema di balbuzie che le è sorto recentemente. Questo handicap la porta, in un qualche modo, ad avere una certa empatia con Steve e la madre, oltre che a costruire un rapporto di buon vicinato aiutando Diane col figlio. Il trio assume una forma liquida, mutevole, che permette allo spettatore di formulare ipotesi e di cominciare a costruire da solo un prosieguo del film.

In questo caso il lavoro di sceneggiatura si mischia benissimo a quello di regia e anche alle buonissime interpretazioni di Anne Dorval e Suzanne Clément, attrici con cui Dolan lavora fin dagli esordi, oltre che al bravo Antoine-Olivier Pilon.
Il formato 1:1 imprigiona i protagonisti, esalta i primi piani e dà notevole importanza al fuori campo, al non-visto, mentre l’inquadratura si espande in un “sedici noni” solo quando Steve e sua madre vivono l’unico momento di spensieratezza del film e quando Diane immagina un “futuro irraggiungibile” proprio come i 16:9 del formato dell’immagine.

Si tratta di un buon film, basato su un soddisfacente connubio tra regia e interpretazioni, che risalta il ruolo di un regista molto giovane e con ampi margini di miglioramento.
Ma le due ore e mezza di durata si “sentono” abbastanza, a differenza di «Gone girl», lo scorrevolissimo film di Fincher, giusto per fare un paragone con un film uscito nella stessa settimana di «Mommy».
Ma al di là di questo, «Mommy» è un film che non racconta, oggettivamente, nulla di nuovo rispetto a quanto visto sino a oggi; se la forma è eccezionale, il contenuto non è certo all’altezza.

C’è anche da dire che probabilmente i personaggi sono piuttosto stereotipati: la madre di periferia, che si veste in maniera piuttosto volgare e si esprime condendo il proprio linguaggio con parecchia volgarità, lascia intendere i motivi per cui il figlio è un adolescente che viene ritratto in maniera fin troppo esagerata nei suoi atteggiamenti, qualsiasi essi siano.

L’impressione è che quella di Dolan sia una visione un po’ borghese delle problematiche che possono coinvolgere una famiglia di periferia, che non è in grado di affrontare i problemi da cui è colpita.
Steve si prende libertà che non sono giustificabili con la sua patologia e la madre esprime una notevole forza nel linguaggio, ma è totalmente inetta nel suo ruolo. A uscirne vincitrice è Kyla, un personaggio interessantissimo, oscuro, in grado di dare al film un valore che senza di essa non avrebbe.
Una comprimaria che diventa protagonista, dunque.

Quindi si torna a Godard, il cui termine di paragone non è dettato soltanto dalla scelta della giuria di Cannes di affiancare il mostro sacro del cinema francese con l’astro nascente del cinema canadese, ma è frutto anche del coraggio che Dolan usa nell’osare con nuove forme e nuovi modi di raccontare.
Però Godard era un narratore che raccontava “da dentro” (sebbene molto meno di registi come Truffaut o Rohmer), mentre Dolan sembra un narratore esterno, distaccato, quasi estraneo alle problematiche di cui si fa portatore e messaggero.
Nel complesso, però, un film da vedere, anche se non è il capolavoro sbandierato dalla cine-critica; merita una valutazione di ***.
Recuperate i suoi lavori precedenti.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

In uscita questa settimana (da segnalare): American sniper, The imitation game.
Già nelle sale (da segnalare): Neve, Pride, Mommy, Melbourne, Viviane, Jimmy’s hall, Gone girl, St. Vincent.

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