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23 Giugno 2014, 09.18

Eppur si muove

Yara: il mostro è servito

di Leretico
La madre di Massimo Giuseppe Bossetti, visti i risultati dell'analisi sul DNA del figlio, ha dichiarato che ha conosciuto Giuseppe Guerinoni, ma non carnalmente

... È impossibile per lei che Giuseppe Bossetti sia figlio dell'autista di pullman morto nel 1999: la scienza sbaglia.
E così, sull'onda del dubbio, che forte si leva in ogni occasione in cui con troppa sicurezza le forze di polizia dichiarano la colpevolezza di un cittadino, l'attenzione si focalizza sulla prova regina del DNA.


I giudici si appellano alla scienza per supportare le proprie decisioni, visti i potenti mezzi a disposizione dei laboratori del RIS.
La madre del presunto assassino di Yara, si appella alla memoria. In gioco il suo matrimonio e la vita del figlio.
Non c'è tempo per futili ragionamenti, né c'è scampo: il mostro è già in prima pagina.

L'opinione pubblica ondeggia tra il terrore e la rassegnazione
.
L'onda emotiva giunge al culmine quando finalmente si può puntare il dito contro un colpevole. Si discute di disumanità, di crudeltà, di come un essere umano possa mai pensare di poter usare violenza sui bambini e sulle donne, in attesa che tutto passi, che tutto torni alla normalità, possibilmente presto.

Trovato il colpevole dimentichiamo la colpa, rimozione collettiva: non è possibile per la mente umana infatti evocare continuamente l'orrore, che deve in qualche modo essere rimosso per poter sopravvivere, per poter andare avanti.

Quello che rimarrà, dopo tutto lo spettacolo andato in scena in questi giorni, sarà la negazione decisa della signora Bossetti che giura di non aver avuto nessuna relazione con Giuseppe Guerinoni. Ma come ragionevolmente opporsi alla prova del DNA?

Non è la prima volta che le campagne bergamasche intorno a Chignolo d'Isola, luogo del ritrovamento del corpo di Yara nel febbraio del 2011, sono state testimoni di efferati delitti contro gjovanissime creature.

L'8 dicembre del 1870, una ragazza di 14 anni di nome Giovannina Motta fu uccisa, il corpo orrendamente seviziato, mentre da Bottanuco, dove era a servizio presso la casa della famiglia Ravasio, rientrava a piedi verso Suisio. Bottanuco dista da Chignolo d'Isola solo quattro chilometri.

Subito fu arrestato un certo Abramo Esposito
, muratore di origine meridionale e forse proprio per la sua origine.
Ben presto però le autorità furono "costrette" a liberarlo, avendo l'Esposito un alibi di ferro.
E si capisce il malincuore con cui arrivarono a questa decisione, non avendo altri a cui addossare il sospetto.

Circa nove mesi dopo, il 27 agosto 1871, un altro omicidio.
Stavolta a morire strangolata fu Elisabetta Pagnoncelli, moglie di un contadino del luogo, madre di due figli di cui uno in fasce, ritrovata nuda in un campo con varie parti del corpo martoriate da un "istrumento da punta e taglio".

Anche qui il sospetto cadde su un innocente, Luigi Comerio, solo perché aveva "tentato d'indurla a mancare ai suoi doveri coniugali". Anche stavolta gli inquirenti dovettero desistere di fronte ad un alibi inequivocabile.
Ricordiamo che per Yara fu immediatamente accusato un innocente, Mohamed Fikri, l'Esposito dei giorni nostri.

Ma non tutto era perduto.
Ecco che nelle indagini entra molto opportunamente un giovane di ventidue anni, tale Vincenzo Verzeni, abitante a Bottanuco, di famiglia agiata di contadini, senza vizi, tutto casa e chiesa insomma.

Nessuno l'avrebbe mai creduto capace di tali atroci misfatti, ma dopo che si venne a sapere di alcuni inquietanti avvenimenti che lo riguardavano, l'opinione pubblica cambiò giudizio: da innocente divenne colpevole, casa e chiesa elemento aggravante.

Il giovane era stato accusato, qualche anno prima, di aver importunato la cugina Marianna Verzeni, mentre questa dormiva, introducendosi furtivamente in casa sua e ponendogli un cuscino sulla faccia e una mano sulla gola per costringerla a cedere alle sue inequivocabili "avances".

Divincolandosi e urlando, la giovane riuscì a mettere in fuga l'aggressore senza riconoscerlo, ma una zia della ragazza, avendo visto Vincenzo Verzeni uscire dalla casa della cugina proprio dopo aver udito le sue urla, associò agilmente Vincenzo all'aggressore.
E non bastò a quest'ultimo il dichiarare di essere giunto nella casa dei parenti solo dopo aver sentito anche lui le grida della cugina. Quella macchia, quel sospetto valsero ben altro, qualche anno dopo, nel caso della morte di Giovannina Motta e di Elisabetta Pagnoncelli.

Quando, appunto, si scoprì di questa passata accusa in capo al Verzeni, fu tutto un florilegio di dichiarazioni che vedevano il Verzeni presente miracolosamente in tutti i luoghi dei delitti o nei loro pressi. Il popolo, avuto in pasto il colpevole, procedette alla "narrativizzazione" della sua colpa. Processo popolare immancabile in queste occasioni, capace di incidersi profondamente nelle menti dei più. Scontata la sentenza di colpevolezza finale.

Il giudice che si trovò in quei frangenti a dover giudicare della colpevolezza del Verzeni, volle fare appello alla scienza. In quel tempo il massimo luminare della criminologia italica era Cesare Lombroso, teorico del legame fra tratti somatici del corpo e del viso e predisposizione al crimine, il tutto inscritto nel fondo dell'occhio, nella cui lettura il criminologo era infallibile. Insomma un condensato di razzismo e credenze popolari, ridicolo per noi, verità per la "scuola positiva del diritto penale" fondata da Lombroso stesso in quegli anni.

Certo la scienza dei giorni nostri ha fatto passi da gigante e non può paragonarsi a quella del 1870. Non è cambiato invece il meccanismo del "mostro in prima pagina", scattato puntualmente, ora come allora, nel caso di Massimo Giuseppe Bossetti.

Dopo una profonda e accurata indagine da parte di Cesare Lombroso, Vincenzo Verzeni fu trovato "responsabile pienamente in principio dell'atto, meno responsabile nel delirio dell'atto".
A questo responso si adattò il giudice e il Verzeni fu condannato ai lavori forzati a vita.

Ora, ripetiamo, lungi da noi paragonare la scienza di Lombroso a quella del 2014. E tanto meno contestiamo la validità delle analisi sul DNA messe in campo per scoprire il colpevole di un efferato delitto. Ma quale possibile difesa potrebbe mai contrastare la forza del "mostro in prima pagina"?
Quante volte errori nelle indagini, nel reperimento delle prove, nella ricostruzione dei fatti, hanno inficiato gli sforzi per arrivare alla verità.

Ci viene in mente il recente processo a Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto del 1990 nel suo ufficio di via Poma a Roma, con 29 coltellate.
Busco, assolto definitivamente in Cassazione dopo una condanna in primo grado e un'assoluzione in appello, è stato vittima di incapacità di indagine, di quel comune modo di agire, che caratterizza le forze dell'ordine quando un caso si presenta difficile: cercare e trovare comunque un colpevole, qualsiasi esso sia, essendo indifferenti alla tragedia dell'innocente, adattando i fatti alle teorie e non le teorie ai fatti.

Così oggi, di fronte al caso Bossetti,
non ci pronunciamo sulla colpevolezza. Siamo certi però che tutto è stato fatto perché, se innocente, la sua difesa sia praticamente impossibile. La scienza non dovrebbe essere usata in questo modo. Le istituzioni non dovrebbero prestarsi al gioco al massacro organizzato sui giornali e perpetuato sulle televisioni, in nome di quel senso del dubbio e del rispetto per la difesa, sacrosanti in un paese civile.

Verzeni nel 1871 fu condannato a vita, Bossetti nel 2014 ha già ottenuto medesima condanna prima ancora del processo. Ora resta solo che i giudici si adeguino, cosa che non mancherà di accadere.

Leretico

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