Il punk
di Luca Rota

Con quello odierno si chiude un cerchio lungo cento episodi, un piccolo traguardo che porta questa rubrica in tripla cifra e che, per festeggiarla, sceglie una figurina diversa, anticonvenzionale, folle e oltre qualunque altro aggettivo si possa usare; ma in grado di impersonare il termine "leggenda" come poche



Di Robin Friday non ci si ricorderà mai per i titoli in prima pagina, né lo si potrà trovare negli annali calcistici, negli almanacchi delle serie maggiori o tra le pagine degli album delle figurine.

Tutto ciò che lo riguarda si narra attraverso il sapore malinconico del mito, supportato però dal riscontro reale dei tabellini delle partite e da una storia calcistica che lo ha visto giovane e spregiudicato, concludere già a venticinque anni una carriera quasi decennale.
Sullo sfondo una mistura di risse, alcol, droghe, arresti e una vita che definire sregolata suonerebbe più che soft.

Ala destra, come chi in quegli anni dell’estro fece il proprio marchio di fabbrica, di certo non un tipico lord d’Oltremanica, né un mite, ma considerato da molti che lo videro giocare o lo affrontarono ai tempi, un talento impressionante.

Un giorno lasciò la squadra in dieci per oltre un tempo di gioco; poi stancatosi del pub, raggiunse lo stadio, si cambiò d’abito e mise a segno il gol decisivo, a pochi minuti dal termine, ovviamente ancora sotto effetto della sbornia.

Se Iggy Pop e i suoi Stooges crearono il Punk quasi un decennio prima della sua “istituzionalizzazione”, Friday punk lo fu in parallelo nel calcio, quando tra un dribbling e un gol, mandava al diavolo allenatori, portieri avversari oppure baciava poliziotti a bordo campo.
Un irriverente che non a caso concluse la carriera nel ’77, appena un anno dopo l’inizio di quel triennio musicale al quale somigliava tanto. Breve, intenso, forte.

Giocò da professionista non ancora maggiorenne, sempre nelle serie minori, sempre senza regole. A Reading, Luton e Cardiff se lo ricordano più che bene; proprio in Galles si guadagnò un posto nel mito quando, in un incontro di FA Cup, eluse due volte la marcatura del leggendario Bobby Moore, mettendo a segno una doppietta.

E per non farsi mancare proprio nulla, strizzò le parti intime di quella che era una vera e propria leggenda vivente, l’ex capitano inglese che un decennio prima aveva alzato al cielo di Wembley la Coppa del Mondo.
Cosa che evidentemente a Friday doveva interessare molto poco.

Una vita breve e fuori dagli schemi, forse in modo eccessivo, conclusa a soli trentotto anni e che come la sua carriera, magari avrebbe potuto fare di meglio.

Perché Friday non era un lord - questo lo si è già detto - e nemmeno una presenza anonima, forse una meteora, un alcolista, un rissaiolo e un inaffidabile, ma pur sempre un grande talento, uno che a calcio sapeva giocare.
Un punk. Deliziosamente punk, uno che probabilmente di God save the queen, preferiva la quella dei Sex Pistols.
E su questo, come dargli torto?