La quiete dopo la tempesta
di Leretico

Non avrei mai capito veramente cosa sia essere agli «arresti domiciliari», senza la crisi del Covid-19


Mi manca la libertà, proprio quella di cui non mi curavo particolarmente fino a questi giorni tribolati. L’ho sempre indossata come una camicia d’estate, che toglievo e mettevo secondo il calore e la condizione in cui mi trovavo. Ora le cose sono cambiate.

Così, mentre il virus imperversa e intasa drammaticamente le notizie quotidiane, vago per la casa cercando una variazione credibile al percorso, ormai “standard”, tavola-divano-letto.
Un triangolo comunque insidioso in tutte le sue varianti combinatorie.
Dormire per terra oppure mettere una tenda in giardino cominciano ad essere soluzioni credibili.

Cerco su internet se vendono tute da palombaro a basso prezzo.
Potrebbe essere utile per raggiungere il supermercato nei prossimi giorni, se la situazione peggiorasse ancora.
Se avesse l’elmo di vetro a forma di lampadina, avvitabile, sarebbe interessante e probabilmente, così conciato, mi lascerebbero uscire di casa senza chiedermi l’autocertificazione. Dopo qualche minuto di infatuazione per la geniale idea, rinuncio. Troppo pesante da portare.

Eppure, l’idea di un’immersione permane suadente con un retrogusto di salvezza. Cavalco la sensazione e scendo al piano inferiore della casa, deciso, nella stanza dove ho occultato, in ordine, i miei libri.
Entro come Ulisse che affronta le sirene sulla propria nave orgogliosa. Qui nessuno potrà evitare la mia evasione. Qui mi sento di poter resistere allo tsunami che là, nel mondo, sta imperversando.
Mi faccio legare all’albero maestro degli scrittori, perché le sirene non mi convincano ad uscire di casa facendo leva sul mio libero arbitrio così sviluppato.

L’albero maestro a cui mi appoggio sembra una colonna di Traiano, su cui guardare le storie di una vittoria, di una reale conquista. Tuttavia, si sa, guardare non è vedere, quindi mi accontento della saldezza che il mio «refugium peccatorum» al momento mi concede.

Le sirene sono suadenti, parlano il linguaggio della pubblicità: sole, campi aperti, incontri con amici sorridenti, viaggi in luoghi ameni ed esotici.
Contraddittorio leggere i messaggi continui in televisione di stare a casa, alternati a immagini di famiglie perfette che salgono in auto e vanno incontro alla libertà. È una tortura.

Il suono di un’ambulanza mi riporta ad aprire gli occhi per un momento e un’immagine invade proditoriamente la mia coscienza: un lugubre convoglio militare scorre lento al centro di una città deserta accompagnando i feretri di centinaia di naufraghi verso il nulla.
Il nulla è angosciante e ci costringe a dibatterci nella dolorosa scelta tra mito o filosofia.

Non sappiamo se sia meglio un rimedio alla paura che ondeggi nelle emozioni del racconto mitico oppure poggi saldamente i piedi della ragione contro l’imprevedibile che incombe. Non basta una vita per decidersi sulla questione e Dio lo sa.

È troppo triste quel corteo funebre senza un umano addio, senza ritorno. Non resisto, cerco di pensare ad altro e giro lo sguardo verso i libri, verso gli scrittori miei salvatori, verso le loro ombre che mi parlano.
Mi sovviene in quel frangente, e opportunamente, il don Ferrante di Manzoni, che non si preoccupava della peste, avendone “filosoficamente” dimostrato l’inesistenza, ma questa «gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».

Alla fine, come diceva Leonardo Sciascia,
il vero vincitore dei «Promessi Sposi» è davvero don Abbondio, che, nel romanzo, supera tutte le difficoltà: i temibili bravi, l’arrogante e violento don Rodrigo, persino il morbo fatale della peste. Vince la sua mediocrità, il suo non scegliere per il bene, la sua accidia.

Mi sovviene la «Storia della colonna infame» che ci toccherà rivivere a breve quando daranno la caccia ai presunti untori, capri espiatori a cui far pagare socialmente tutte le colpe del contagio assassino.

Tra le voci che odo sulla nave di Odisseo c’è quella di Gesualdo Bufalino, che in «Diceria dell’untore» sogna la salvezza per i suoi protagonisti, amanti malati in fuga dal sanatorio dove «l’attesa della morte è una noia come un’altra».
E poi sento dal profondo Camus, Lucrezio, De Roberto che mi dicono sommessamente che le epidemie sono sempre esistite e venivano combattute con l’isolamento e l’attesa.

Certo, non posso dimenticare il «Decamerone» del Boccaccio, la letteratura schierata contro il morbo fatale.
Mi piacerebbe prendere la strada di Montale che mi parla del suo «Secondo mestiere», quello che potremmo fare in questi giorni di prigionia, quello che non abbiamo forse avuto il coraggio di scegliere a suo tempo e adesso portiamo avanti per diletto, con una certa nostalgia.

Ma quello che più si eleva tra le voci amiche
è Primo Levi che ne «I sommersi e i salvati» mi ricorda che cosa sia l’offesa che il virus ci sta portando e cosa veramente significa il contagio del male:

«Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio.
È stolto pensare che la giustizia umana la estingua.
Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia»


Anche Giacomo Leopardi vuole dire la sua e non fa in tempo a raccontarmi in quali circostanze scrisse «La quiete dopo la tempesta» che una voce amica mi chiede di tornare al micidiale triangolo della vita coatta di questi giorni.
Mi consolo con Eduardo de Filippo che nuovamente mi suggerisce, come altre volte mi è capitato: «adda passà ‘a nuttata».

Indugio ancora un attimo, prima di riemergere al piano di sopra, per ascoltare Emanuele Severino, che da poco ci ha lasciato.
Un giorno disse in un’intervista: «Quando la malinconia diventa matura si trasforma in allegria».
Spero anch’io che, dopo aver superato la buriana, la malinconia di questi giorni di prigionia, la malinconia di tutta la comunità in cui vivo, si trasformi finalmente in allegria.

Leretico