Sesso o amore?
di Leretico

Mi chiedevo in questi giorni come si potesse rispondere a quella nervosa affermazione del senso comune che, preannunciata da uno stringere a pugno le dita di entrambe le mani a mo’ di mungitura aerea, così recita: “Ma in pratica?”


È questa infatti la proposizione che spontanea sboccia troppo spesso sulla bocca di molti, come il fiore nazional-popolare che spuntava in bocca dei fortunati che si lavavano i denti con “Super-Colgate” nella pubblicità del Carosello degli anni ’70. Immagine terrificante che turbava il sonno dei più piccoli, compresi i miei.
(E se poi, dopo esserti lavato i denti, il fiore ti fosse spuntato nel momento meno opportuno? Dramma infantile).

Stesso terrore ci prende quindi a sentire quegli strani figuri che ti si parano davanti e, con mezzo sorriso (destro) disegnato in viso e con le mani a mungitura, manifestano il loro disprezzo quando va bene con un bel: “Scusa sai, ma dovresti essere più concreto!”, e quando va male con un più diretto “Sei troppo teorico”.

Penso che Zeus in quei frangenti, nonostante non si ricordi la password per accendere il suo lanciatore di fulmini elettronico, torni immediatamente in cantina a recuperare il manuale cartaceo confezionato ai tempi di Aristotele su come estinguere sul posto il fellone vongolatore di turpitudini che osa mettere così in dubbio, e in un attimo, il sapere di duemila e quattrocento anni di storia dell’uomo occidentale.

Ebbene sì, già ne IV secolo avanti Cristo
c’era chi doveva rispondere a questa obiezione e lo faceva con sapienza.
E mentre Zeus armeggiava già da allora in cantina alla ricerca del suo manuale perduto, noi ci ricordiamo che Aristotele chiese un giorno ai suoi peripatetici liceali che lo seguivano: “Potrebbe l’uomo camminare se non sapesse di avere le gambe?”.

È evidente che senza sapere di possedere uno strumento come le gambe, non lo si può utilizzare, né l’uomo può camminare se è convinto di non avere le gambe.
Ma non ci fermiamo a questo aspetto, seppur importante, approfondiamo: Aristotele intendeva porre una gerarchia tra due momenti dell’agire: prima il pensare poi il fare.

Non può esistere un fare senza prima un pensare, come non può esistere un concreto senza prima un teorico.
E questa considerazione dovrebbe essere così convincente che Zeus non dovrebbe avere alcun motivo per lanciare fulmini. Purtroppo invece c’è sempre qualcuno che, spinto da malcelato senso di inferiorità, ama provocare il prossimo con quel presunto richiamo alla realtà: “sei troppo teorico, qui ci serve più concretezza”.
E Zeus, quindi, è costretto a prendere i suoi provvedimenti.

La cosa triste è che questa malattia è molto diffusa, e in nome della virtù della concretezza più dichiarata che conosciuta, si arriva a pensare addirittura che la scuola non serve a nulla, che insegnare non serve a nulla e che l’unico metro per misurare l'uomo sia la sua capacità di produrre un risultato “toccabile, palpabile, tangibile”, meglio ancora se “reddituale”, essendo tutto il resto vaniloquio di parassiti, raggruppando tra questi tutti quelli che per dono o per duro studio e lavoro, parlano con un certo eloquio, amano la poesia, la letteratura o la filosofia.

Ma cari i miei pseudo-concreti, vi chiedo qui una volta per tutte, ma pensate che possa esistere un mondo senza che ci sia un cervello collegato per poterlo ammirare?
Lo vogliamo collegare questo cervello prima di dire che la teoria è inutile?
Ci rendiamo conto che nessuna concretezza è possibile se prima non c’è la parte che organizza gli elementi, che li immagina agire insieme?

Questa parte è il pensiero: solo il pensiero può produrre risultati concreti.
Potrebbe esistere un ponte o una casa senza un progetto?
Potrebbe esistere la scienza senza il pensiero?

Alle persone che insistessero nella polemica mi sentirei di inviare un disperato appello alla consapevolezza, proponendogli di definire la differenza tra sesso e amore. Capisco, è una domanda a trabocchetto perché entrambi i concetti sono legati indissolubilmente e nel pensarli distinti li separiamo perdendo il significato del loro essere insieme.
Chi crede solo nel pratico, e disprezza i pensatori, è forse disposto a rinunciare all’amore?

Non scandalizzatevi, troppi non hanno le idee chiare sulla questione
e confondono il primo concetto con il secondo.
Anche questi meriterebbero l’ira di Zeus, ma il mondo è grande è c’è posto per tutti, anche per quelli, inconsapevoli, che per un piatto di lenticchie si vendono la primogenitura, che non credono nell’entelechia dell’uomo solo perché è troppo lo studio e il lavoro, quelli sì concreti, che dovrebbero fare per poter capire.

In conclusione fatemi dire dunque che a tutti quelli che vi vogliono importunare con il loro falso appello alla virtù pratica, rispondetegli di non dimenticare mai che gli uomini sono gli unici esseri capaci di capire il “sublime”, ossia capaci di arrivare “sub limine” – appena sotto la soglia – “nella contemplazione dello spettacolo della natura, nel prendere coscienza del proprio limite razionale e nel riconoscere la possibilità di una dimensione” ulteriore in cui inscrivere il senso ultimo dell’uomo: l’amore.

Leretico