«Belluscone» e «La zuppa del demonio», l'Italia del piccolo-grande cinema
di Nicola 'nimi' Cargnoni

Nelle sale due film d’autore, testimonianze della vitalità che ancora anima la linfa del cinema di casa nostra


«Belluscone»: se si cercasse un aggettivo per descrivere questo film, “geniale” sarebbe il più adatto. Non soltanto per l’idea di fondo, che rispecchia in pieno i canoni del registro ironico, ma per quell’amalgama che si viene a creare grazie a tecnica, regia, fotografia, sonoro e scrittura.

Il ribaltamento dell’ironia è evidente durante l’arco del film, che si apre con le dimissioni di Berlusconi (novembre 2011) e si chiude col suo discorso di “discesa in campo” del 1994.

Ma facciamo qualche passo indietro.
Un film è sempre finzione, ma il film di Maresco è una finzione che usa la pura realtà.
È reale Tatti Sanguineti, l’amico e storico del cinema che corre in suo soccorso.
È reale Ciccio Mira, l’ambiguo organizzatore di concerti di cantanti neomelodici nelle periferie di Palermo.
Sono reali le immagini di repertorio tratte dai TG e dalle TV locali di Palermo.
Sono reali i cantanti neomelodici, soprattutto Erik, che ha scritto «Vorrei conoscere Berlusconi» (e se andate su youtube la trovate, caricata nel lontano 2010).

La finzione sta nella semplice trama di fondo: Maresco vuole girare un film sui rapporti tra la mafia e Berlusconi.
O più precisamente: il rapporto speciale tra Berlusconi e la Sicilia. Partendo proprio da quella canzone.
Un bel giorno però il regista scompare, sparisce dalla circolazione, lasciando un ultimo, depresso, disperato messaggio telefonico sulla segreteria dell’amico Tatti Sanguineti.

Questi, dunque, si reca subito a Palermo, in aiuto dell’amico regista.
Ma, non trovandolo, cerca di ricostruire le sue ultime settimane, parlando con gli amici e i collaboratori; e vedendo il materiale girato fino a quel momento.
Ne esce, dunque, un collage di incontri, interviste e rivelazioni sul film incompiuto che il “personaggio” Maresco stava realizzando.

Ed è in questa girandola che avviene il meglio: Tatti Sanguineti ricostruisce il film del latitante Maresco e lo spettatore è sbattuto davanti a una realtà, di taglio documentaristico, che ci racconta dei concerti in quartieri come Brancaccio, dei cantanti neomelodici e dei “messaggi in codice” che questi sono costretti a leggere durante i loro concerti.

I rapporti tra neomelodici e mafia non sono cosa nuova.
La vera novità, in questo film, è Francesco Mira, detto Ciccio.
Classe ’44, ex barbiere ed ex musicista, è il manager e organizzatore di concerti neomelodici. E, soprattutto, non è un attore.
È stupefacente, però, la sua mimica facciale, la sua parlata ai limiti della dislessia, la sua capacità camaleontica di uomo letteralmente impelagato con la mafia.
Quando Ciccio Mira appare sullo schermo, la fotografia si “trasforma” in un bianco e nero “d’altri tempi” (proprio come la mafia che «non è più come una volta») che contrasta con i colori e i suoni vividi dei concerti dei cantanti neomelodici.

Il film si snoda tra interviste ai limiti del paradossale, cantanti che si disputano la paternità della canzone dedicata a Berlusconi, litigi e confessioni, servizi dei telegiornali e materiale di repertorio tratto dalle televisioni locali. 
Fino alla clamorosa intervista a Dell’Utri.

Ne emerge un ritratto vivido di Palermo e del suo substrato umano, dotato di quella sottocultura della mafia, del culto della personalità, di frasi come «La legge non serve» e «I pilastri delle strade servono per metterci quelli che se lo meritano», o dell’appellativo «carabiniere» usato per insultare.
Fino a clamorose dichiarazioni sulla mafia e sui suoi personaggi del passato, da Bontade a Buscetta.
L’ironia emerge in tutta la sua virulenza: gli intervistati sono convinti che Maresco stia facendo loro un’intervista seria, ma in realtà li sta prendendo in giro clamorosamente (o, forse, sta prendendo in giro lo spettatore?).

In sostanza il film di Maresco è un manifesto del cinema che vuole essere libero, ma che è vincolato dagli scontri generazionali, da quel che non si può dire, dalle manipolazioni, dalla memoria negata, dalla televisione becera e dal patologico scambio che si fa tra “folklore” e “cultura mafiosa”.
Un film dove certa parte di italiani (una BUONA parte di essi) si rispecchia nei volti straniti e ridicoli dei personaggi di Maresco, come se questi fossero veri e propri specchi deformanti.

È un film intelligentissimo,
colto, citazionista (ma non troppo), che confina con il cittadino Kane di «Quarto potere» (Orson Welles).
È un film originale, scritto bene, girato perfettamente, con una fotografia sublime, fino a un finale tremendamente provocatorio .

È un film in cui si ride, dal primo all’ultimo fotogramma; e a ogni fotogramma, a ogni singola risata, ci si chiede «perché diamine sto ridendo?».

Da vedere e rivedere: ****½

------------------------------------------------------------------------

«La zuppa del demonio»
è un documentario strutturato su un impianto classico e, tutto sommato, standard.
La peculiarità di questo film di Davide Ferrario, però, è che non c’è un solo fotogramma girato dal regista.
Ma attenzione: questo non è un punto a suo sfavore. Anzi, la personalità dell’autore emerge proprio grazie all’idea di fondo che anima il documentario: Ferrario, infatti, vuole raccontare la storia dell’industrializzazione italiana dagli inizi del XX secolo fino agli anni Settanta circa.

Lo fa utilizzando immagini di repertorio, tratte da altri documentari e da film girati in passato, messe a disposizione dall'Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa del Centro Sperimentale di Cinematografia d'Ivrea.
Ferrario si lancia nella scelta degli spezzoni, nel dare loro un ordine, dotandoli di sottofondi musicali creati ad hoc e accompagnandoli con le letture di alcuni dei più importanti scrittori della nostra storia: da Buzzati a Gadda, da Marinetti a Pasolini.

Il film è, in sintesi, l’evoluzione del “sogno industriale” che ha dato adito a larghi entusiasmi e a una lunga stagione di ottimismo.
La provocazione iniziale degli ulivi abbattuti per fare posto all’ILVA colpisce lo spettatore, facendoci capire quanto la nostra percezione degli spazi sia soggetta alla cultura in cui viviamo.

Nel 1962 occorreva creare il benessere, che a sua volta poteva esserci solo con “la grande fabbrica”; oggi, che il benessere lo abbiamo conquistato, tornano in auge le tematiche ambientali.
Del resto, nel Medioevo hanno smantellato il Colosseo per costruire case.

Il regista fa parlare le immagini: citazioni letterarie a parte, sono poche le sequenze dove si odono le voci di allora; e in quelle poche sequenze, assistiamo per lo più a testimonianze di ottimismo, fino a un finale dolce, che vuole chiudere il cerchio.

Il montaggio è perfetto, il lavoro del regista si sente e si vede anche quando si tratta solo di creare un collage di vecchie immagini.

Promosso e consigliato: ***½.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni