Non ci resta che andare a Rimini
di Leretico

Il conte zio, anonimo e malefico di mazoniana memoria, ben si presta a rappreesntare la realtà odierna, in questa interpretazione che ne dà il nostrro Leretico



Se non fosse un capitolo del romanzo più famoso d’Italia, quel romanzo che un tempo si leggeva da giovani, con noia infinita, e adesso malauguratamente non si legge più, se appunto il capitolo XIX de “ I Promessi Sposi” non fosse stato scritto come è stato scritto, si potrebbe ben pensare di poterlo scrivere a rappresentazione della realtà quotidiana.

Perché tutti i giorni quel capitolo, come molti altri de “I Promessi Sposi”, si svolge nel reale, rivive puntualmente nei giorni del ventunesimo secolo.
Il capitolo XIX è quello del Conte zio e del Padre provinciale, ed è storia di tutti i giorni perché nel disegno manzoniano questi due figuri senza nome, com’era pure l’Innominato, rappresentano il peggio della società italiana del Seicento.

Da una lato il Conte zio, uomo influente che gode di credito presso le istituzioni senza avere nessuna particolare funzione, e dall’altro la pusillanimità di un Padre provinciale che per quieto vivere e per un presunto senso di rispetto verso le istituzioni, si fa artefice di una ingiustizia: il trasferimento a Rimini di Padre Cristoforo.

La storia la conosciamo: Il Conte Attilio chiese aiuto al Conte zio perché il cugino Don Rodrigo avesse mano libera nei confronti di Lucia, poi in effetti rapita dal suo rifugio conventuale con l’inganno di Gertrude, monaca di Monza.
Colpiscono invero i modi è l’intelletto di queste due figure che più volte mi hanno ricordato, passando leopardianamente sulle “sudate carte” del capitolo XIX, quanto sia deleteria la capacità di influenza nelle società in cui il potere legale è solo un vuoto simulacro della democrazia e della giustizia, in nome del mantenimento di privilegi e prebende, sempre attraverso abusi.
E questo in senso generale.

Nel senso invece particolare, e qui parlo del Conte zio, quelle pagine mi ricordano quelle persone che avendo guadagnato, non certo per merito, un piccolo o grande potere, lo usano per sé stessi, preoccupati solo di mantenerlo.

Scrive il Manzoni, presentando la figura del Conte zio nel capitolo XVIII:
Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere; un minacciare in cerimonia, tutto era diretto a quel fine; e tutto, più o meno, tornava in pro. A segno che fino un: Io non posso niente in questo affare, detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà, del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe: e dentro non c’è nulla. Ma servono a mantenere il credito alla bottega”.

Insomma dentro la metaforica scatola dell’animo
del Conte zio c’è il nulla (e Dru direbbe la contraddizione) eppure quel suo non rispondere, quel suo “lusingare senza promettere” viene preso per segno di potenza e di potere, cosa reale e concretissima in un mondo di pessimi personaggi come l’avvocato Azzeccagarbugli o il Padre provinciale: anonimi quanto vuoti di spirito e di valori.

La pochezza d’intelligenza del Conte zio
si manifesta nella palese manipolazione che subisce da parte di suo nipote Conte Attilio, il quale raggiunge i suoi scopi facendo leva sul falso senso dell’onore della famiglia che tanto preme al Conte zio, quell’onore che si traduce in fondo nel suo potere di influenza:

“Immagino” dice il Conte “che questo frate non sappia che Rodrigo è mio nipote
”.
Il Conte Attilio risponde:
Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso” e più avanti “… e che lui se la ride dei grandi e dei politici: e che il cordone di San Francesco tiene legate anche le spade”.

Ecco dunque in scena la manipolazione dell’imbecille, che si crede ed è creduto grande quando invece rivela ogni momento di essere una scatola vuota, il nulla in grado di produrre solo malvagità. Mettendola come Shakespeare: il debole Otello pronto per gelosia a soffocare l’amata Desdemona, perché incapace di capire quali fossero i veri intenti di Jago.

Ma la cattiveria nulla potrebbe se il Conte zio non fosse circondato da pusillanimi, ossia persone che scambiano la prudenza per viltà, chiamano tatto ciò che invece e solo egoismo.
Il disegno di Rodrigo e Attilio non si realizzerebbe senza la pochezza del Padre provinciale, il quale invece di reagire difendendo il suo sottoposto Padre Cristoforo, cede alla minaccia di conseguenze ulteriori e non ben definite nei confronti del suo convento che malauguratamente ospita Padre Cristoforo.

Il puntiglio del Conte zio ottiene soddisfazione, Padre Cristoforo viene mandato a Rimini.
E noi lettori amaramente sappiamo quanti padri provinciali conosciamo e determinano i nostri destini.
Quanti personaggi che invece di far valere, per dignità e per giustizia, il proprio ruolo si riducono a farsi mezzo di malvagità e ingiustizia pur di mantenere un farisaico ma premiante equilibrio.

Ma più di tutti sappiamo quanti personaggi vuoti, come il Conte zio, quante nullità sono in grado solo di pensare il male e realizzarlo perché non in grado di riconoscere la loro inadeguatezza, la loro insipienza, la loro dappocaggine.
Scatole vuote al servizio dell’ingiustizia.
E noi, che a tutto questo assistiamo, anche noi saremo costretti a cambiar convento, ad andarcene a Rimini, senza avere purtroppo la speranza nella Provvidenza, la vera protagonista dei “Promessi sposi”.

Leretico