La 'trilogia del degrado', il vero cinema del reale
di Nicola Cargnoni

In questi giorni in cui si parla molto del film di Sorrentino, tra le varie bestialità (e i vari paragoni con Fellini, del tutto fuori luogo) ne ho sentita una che mi ha colpito in particolar modo: «La grande bellezza» rappresenta alcuni aspetti della nostra società


Dissento.
In realtà il film di Sorrentino ritrae un’Italia che quasi nemmeno esiste, in una Roma ripulita, sistemata e messa in ordine per l’occasione.
Col risultato che oltre a essere un film vuoto, è pure finto.

A tal proposito vorrei parlare di tre titoli: «Pater familias», «Et in terra pax» e «Corpo celeste».
Cos’hanno in comune? Sono italiani, sono recenti, sono terribilmente e moralmente violenti, sono girati benissimo e sono tutte opere di esordio dei rispettivi registi (Francesco Patierno, il duo Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, infine Alice Rohrwacher).
E, manco a dirlo, non hanno goduto della distribuzione che meritavano.

Secondo me formano una ideale “trilogia del degrado”, da cui emergono sul serio scorci, situazioni e ritratti della nostra società. Altro che «grande bellezza», la cui unica cosa davvero reale è quella grandissima minoranza di ricconi intellettualoidi e radical chic (ovviamente di sinistra) dei salotti romani.

Parto dall’ultimo, «Corpo celeste», il più recente e forse quello meno crudo dei tre.
Girato da Alice Rohrwacher (sorella dell’attrice Alba), ambientato in Calabria, vede come protagonista una ragazzina, Marta, che dopo essere cresciuta in Svizzera, torna a Reggio Calabria; immersa nella terribile realtà urbana calabrese, si deve preparare alla Cresima.

Quello di Marta è un viaggio dantesco, durante il quale deve affrontare una società chiusa, molto ignorante, guidata da dettami religiosi, ma a loro volta chiusi nel circolo vizioso della tradizione, più che della fede, con un parroco che è più politico che uomo di chiesa.
Personaggi vividi e terribili, donne radicalmente cattive, situazioni ed episodi frustranti sono i “lampi” che illuminano il percorso che Marta fa verso la Cresima.
L’incontro con un prete folle e il finale di vera redenzione epifanica sono l’apice di un lavoro che la Rohrwacher esegue magistralmente.

«Et in terra pax» è del 2010 ed è diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.
È un film al quale mi sono avvicinato senza particolari aspettative, con la curiosità che mi accompagna ogni volta che guardo (spesso in maniera diffidente) le opere prime di un regista italiano.
Ancora oggi faccio fatica a parlarne, perché è un film che mi ha sorpreso, mi ha colto impreparato e mi ha moralmente preso a schiaffi per tutta la sua durata.

Ambientato in un quartiere periferico di Roma, ritrae la realtà della nostra capitale: quella dei palazzoni abitati abusivamente o semi abbandonati, degli spacciatori sulle panchine, degli stupri, della difficile integrazione, dei mucchi di spazzatura.
Non certo quella dell’attico “vista Colosseo” di Jep Gambardella, ma quella dei ragazzini che bighellonano e sniffano coca, così lontani dai discorsi da ricconi intellettualoidi o dalle feste sfrenate riservate a pochi intimi.

È un film irruento, che ti prende e ti accompagna all’interno di un meccanismo di autodistruzione, senza intenti moralistici, ma soltanto con la voglia di raccontare, mostrare, “far vedere”.
In un lavoro di regia che rasenta la perfezione, Botrugno e Coluccini ci raccontano di Marco, che esce di galera e torna a spacciare sulle panchine, mantenendo un profilo basso e un’etica (chiamiamola così) che si scontra con la spavalderia di Faustino, Massimo e Federico, i tre ragazzi(ni) protagonisti di questa fiaba al contrario.

Fino all’ineluttabile finale di purificazione, non necessariamente benefica, dei mali che si susseguono uno dietro l’altro per tutta la durata. Uno di quei film che ti bloccano, mentre gli occhi guardano (ma non vedono) i titoli di coda e la mente ripercorre gli ultimi agghiaccianti istanti di pellicola.

Qualche anno prima, nel 2003, era uscito «Pater familias», girato dall’allora esordiente Francesco Patierno e ambientato a Casoria, un ambiente notoriamente non facilissimo.
È il racconto su come la famiglia sia rifugio e prigione.
Da un lato la famiglia tipicamente meridionale che protegge, che fa quadrato attorno ai propri membri, che protegge i propri figli; ma dall’altro lato la stessa famiglia è prigione, è legame a filo doppio, è catena, è l’infrangibilità di certe regole sociali.

I protagonisti di questo film sono alcuni ragazzi, molto legati tra di loro, che costituiscono a loro volta una “famiglia”.
È un film violento, dove però si spara molto poco.
Qui la violenza è quella dei figli che maltrattano le madri.
Quella dei mariti che vogliono mangiare i fagioli in pace e allora insultano le mogli.
Quella dei padri che lanciano posaceneri in faccia ai figli.

È la violenza morale della logica della vendetta, la violenza degli amori obbligati, quella delle rapine finite male, delle bravate che finiscono in tragedia e dell’inesorabile destino che appartiene a ogni membro.
Un ambiente dove “il più sano ha la rogna”, e infatti il film parte da Matteo, il più “sano” di tutti, che torna a casa in libertà provvisoria (!) per affrontare la morte del padre.

Grazie a lui e a numerosi flashback, le immagini ci portano al passato dove gli amici di Matteo sono tutti morti in maniera tragica. Matteo ora deve sistemare i dettagli burocratici riguardanti la morte del padre, ma vuole anche offrire una via d’uscita a Rosa (suo vecchio amore) che nel frattempo si è sposata, ovviamente male.
Nel corso della narrazione scopriamo anche il motivo per cui Matteo finisce in galera, rassegnandoci a nostra volta all’ineluttabile destino, figlio del meccanismo perverso, ma lucidamente coerente, che regola la vita delle periferie degradate come quella di Casoria.

Questi tre film compongono una brillante e ideale (nonché involontaria) Trilogia del degrado, o almeno è il modo in cui personalmente cerco di accomunarli l’uno all’altro.
Forse la storia di Marta è quella più anomala delle tre. Perché è da un punto di vista femminile, quindi formalmente più delicato e meno “violento” (anche se soltanto nelle parole e nei gesti), perché fondamentalmente si conclude con una nota di speranza, e perché è la storia vista dagli occhi di una 13enne, che guarda con meraviglia e stupore un mondo a cui non vorrebbe appartenere.

Mentre gli altri due titoli sono delle tragedie greche, senza soluzione di continuità, con un impatto morale devastante e un’assai accesa violenza di immagini.
Non mi sono soffermato sui dettagli tecnici, perché in realtà ci sarebbe anche questo sorprendente aspetto da approfondire: tutti e tre i film conservano al loro interno un piccolo tesoro di fotografia, colore, suoni, rallentatori “scorsesiani”, movimenti improvvisi della camera…

Non solo la narrazione, ma anche il modo in cui sono raccontati, fanno di questi film delle perle ingiustamente ignote al grande pubblico, al quale si vuol far passare l’idea che un film valga di più solo se maggiormente distribuito.
I cast: per tutti i film sono utilizzati attori semi-sconosciuti, facce poco note, o persone realmente appartenenti alla realtà raccontata; in un’intervista, uno dei protagonisti di «Pater familias» ammette di non aver faticato a recitare, perché la sua vita è tale e quale all’interpretazione che ha dovuto dare del proprio personaggio.

Sul solco di questi tre film si può incanalare anche «È stato il figlio» (2012) di Daniele Ciprì, che racconta di una storia realmente accaduta nella Palermo degli anni Settanta.
Ambientato a Brindisi (per prendere i contributi della Apulia Film Commission, una delle poche cose ben funzionanti in Puglia) e interpretato da uno splendido Toni Servillo e da un cast ancora una volta sorprendente, è però un film che si può definire grottesco, sicuramente tragico, ma narrato con un piglio che non vuole essere troppo violento.

A tratti divertente, fa sorridere. È certamente subdolo, perché c’è una sostanziale violenza di fondo che è però ben mascherata dalla tragicomicità delle interpretazioni.
Non lo affianco agli altri tre nel tentativo di formare una tetralogia, non per particolari demeriti (è da vedere assolutamente), ma perché i primi 3 film conservano un fondo di violenza morale che è davvero difficile da raggiungere e imitare.

. in foto, nell'ordine:
- «Corpo celeste»
- «Et in terra pax»
- «Pater familias»