A proposito di: Jean Vigo, il genio poeta
di Nicola Cargnoni

Morto a soli 29 anni, con meno di 180 minuti di filmografia è considerato uno dei più grandi maestri della cinematografia.


Figlio di un attivista anarchico basco, Jean Vigo nasce e cresce nella Parigi di inizio secolo, ‘respirando’ e assimilando la cultura surrealista e le varie teorie avanguardistiche di quegli anni.
Fin da giovane contrae una forma grave di tubercolosi che condizionerà pesantemente il corso della sua vita.

Il background culturale ereditato dal padre anarchico caratterizza l’intera opera di Jean Vigo, che realizza le proprie pellicole negli anni Trenta, momento in cui l’Europa è attraversata dalla temperie fascista, che si insinua ovunque.
Considerato ancora oggi uno dei registi più libertari di sempre, Jean Vigo è difficilmente inquadrabile in una precisa corrente artistica.
Le tematiche affrontate, lo stile delle sue inquadrature e la sua attenzione alle dinamiche ‘di contorno’ fanno di Vigo un regista rivoluzionario.

Nelle sue pellicole non viene mai meno la tradizione del filo narrativo, i suoi racconti sono a loro modo lineari; ma a questo tradizionalismo fa da contraltare una vera e propria sovversione delle tecniche e dei modi di filmare, della scrittura dei dialoghi e del montaggio.
Le sue prime opere sono due cortometraggi, entrambi a loro modo rivoluzionari: uno per quanto riguarda le tematiche e l’altro per quanto riguarda le tecniche di regia.

Il primo è «À propos de Nice» (A proposito di Nizza), del 1930, una pellicola coraggiosa che abbandona la tradizione del ‘documentario di città' per trasformarsi in un ‘punto di vista documentario’: qui Vigo usa la macchina da presa come fosse un occhio che osserva sbadatamente la vita di Nizza, ma dietro all’apparente indifferenza si nasconde l’intento sociale e politico di mettere a confronto le diverse classi sociali e la multietnicità del luogo.
Il ritmo è talvolta frenetico, il montaggio fa credere che non ci sia un soggetto dietro all’opera, ma in realtà il regista è totalmente ispirato a Vertov, il cineasta russo che aveva realizzato «L’uomo con la macchina da presa», vero e proprio capolavoro del movimento «Cineocchio».

Il film ‘trasuda’ vita, emanando uno spirito di ribellione totale; all’oziosità dei ricchi si contrappone il formicolio della vita della classe lavoratrice, alle ville delle zone residenziali si oppongono gli stretti vicoli dei quartieri popolari.
Sono 22 minuti di puro sperimentalismo cinematografico, che ben rappresentano l’apice della maturazione delle avanguardie, accavallandosi a una crescente attenzione verso le dinamiche sociali.

Il secondo ‘corto’, di 11 minuti, è «Taris, roi de l’eau» (Taris, re dell’acqua), un documentario dedicato a Jean Taris, famoso nuotatore francese degli anni Trenta.
In questa pellicola Vigo segue una linea meno sovversiva, realizzando un tradizionale cortometraggio, almeno nella forma.
È, però, nelle tecniche che stavolta emerge tutta l’innovazione del regista, che utilizza una fotografia di tipo espressionista, con forti contrasti tra primi piani e sfondi, con una forte luce sul nuotatore e con una grande attenzione alla corporalità dell’atleta (non è un caso che l’emergente regista McQueen, che arriva nelle sale italiane il 20 febbraio con «12 anni schiavo», abbia annoverato Jean Vigo tra i suoi idoli). «Taris» è il primo lavoro cinematografico per cui sono state usate le inquadrature subacquee, elemento che caratterizzerà fortemente il capolavoro finale di Vigo (ne parlo tra poco).

«Zéro de conduite» (Zero in condotta) è un mediometraggio del 1933.
Autobiografico e citazionista, è un tenero tributo alle idee del padre, oltre che l’apice del libertinismo e della sovversione anarchica di Jean Vigo. Ambientato in un collegio francese, è la storia di un gruppo di studenti che si ribellano alla vita ferrea e disciplinata a loro imposta.
I ‘cattivi’ (il viscido professore e l’autoritario preside) sono caratterizzati da connotati tipicamente espressionisti, il professore è un goffo, grasso personaggio, sempre sudato e con la pelle unta, mentre il preside è un vero e proprio nano barbuto e pelosissimo, dagli atteggiamenti fortemente impostati e militareschi.

La combriccola di studenti anima la pellicola con una serie di piccole ribellioni, scherzi, burle, battute, rispostacce e grida allegre, oltre che piccole tumultuose rivolte nei confronti del ‘mondo degli adulti’.
È un bel confronto tra i due mondi: quello dei ragazzini, la cui purezza rispecchia quella dell’anarchismo, e quello degli adulti, a loro volta espressione dell’impurità borghese.
La confusione è alimentata da un montaggio volutamente ‘disordinato’, che mette bene in risalto lo spirito che caratterizza l’intera narrazione.

Nonostante i ragazzi si lascino talvolta andare ad atteggiamenti di maleducazione, non si riesce a non parteggiare per loro; in realtà sono molto più frequenti quei momenti in cui la loro smania di ribellione è una vera e propria eruzione di allegria, ingenuità e tenera vitalità.
È un film fortemente poetico, dove lo spirito libertario è raccontato con delicatezza attraverso gli occhi dei ragazzini e attraverso la loro voglia di vivere.

«L’Atalante», del 1934, è l’unico lungometraggio del regista, che sarebbe morto di lì a poco.
Non poteva lasciare miglior eredità artistica e spirituale, un film universalmente riconosciuto come un capolavoro e, per me personalmente, il più bello della storia del cinema (al pari di un «Ordet» di Dreyer, di un «Eraserhead» di Lynch o di un «M» di Fritz Lang).
Poesia, ribellione, anarchia, tenerezza, delicatezza, musica, sorrisi e lacrime si mescolano sul filo di una bellissima storia d’amore, che non è solo quella tra i due protagonisti, ma è la storia d’amore tra Vigo e il cinema, tra il marinaio e la sua barca, tra la moglie e il suo marito.

L’Atalante è il nome della chiatta di cui il protagonista Jean è comandante. Dopo essersi sposato con Juliette, i due vanno a vivere a bordo della chiatta, insieme a un marinaio che è uno dei più incredibili personaggi che il cinema ci abbia regalato.
«L’Atalante» è un film di rottura con l’intera tradizione cinematografica, è un caso isolato del cinema dell’epoca, ma nella sua fragilità narrativa mantiene una incredibile tendenza a mescolare il reale con l’onirico, spostando e modellando i confini tra visibile e immaginifico, e rielaborando ogni concezione di plausibilità, uscendo dal dualismo che vedeva opporsi il cinema come strumento di ‘narrazione del vero’ al cinema come ‘espressione delle avanguardie’.
«L’Atalante» si pone nel mezzo, o meglio si estranea da questa logica, incarnando il cinema come pura espressione poetica e lirica.

La sequenza subacquea, dove il Jean reale e concreto si lascia andare in una danza con una immaginaria Juliette (che in realtà è scappata a Parigi) è probabilmente la scena più rivoluzionaria di sempre dal punto di vista tecnico e cinematografico.
Non è un caso che Ghezzi l’abbia scelta come sigla per «Fuori orario», la trasmissione che su RAI3 si occupa di cinema di qualità, naturalmente a notte fonda.

Un mese dopo l’uscita di «L’Atalante», Jean Vigo sarebbe morto all’età di 29 anni.
Questo ha fatto sì che attorno alla sua opera sia sorto, col tempo, un alone mitico, senz’altro meritatissimo.
Soggetto a pesanti censure quando era in vita, Vigo è stato enormemente ripreso e progressivamente rivalutato dagli anni ’50 in poi.
Registi di enorme caratura come Bunuel e Truffaut lo hanno indicato come un pilastro della loro cultura cinematografica; tuttavia Vigo fa parte di quel microcosmo di maestri del cinema che non godono di passaggi televisivi in prima serata.

È un peccato, perché lavori come «Zero in condotta» e «L’Atalante» sono veri e propri inni allo splendore dell’arte cinematografica, oltre che splendidi e poetici affreschi di rara bellezza filmica.