L'esercizio della stanchezza
di Alberto Cartella

La riflessione che ci porta questa settimana il filosofo Alberto Cartella riguarda la rappresentazione come riflesso delle nostre paure: un impulso subitaneo a rispondere alle aspettative che la filosofia può curare con la pazienza di far venire le cose a sé

 
Ci sono vite che sembrano sconvolte dalla rappresentazione che ce ne facciamo, anche se il soggetto trova risorse inaspettate. Ma la rappresentazione è il riflesso delle nostre paure. Ciò che è della propria realtà si tende a sopportarlo. Non far lavorare, anche se ci lavora inconsciamente, la nostra inquietudine, costituisce la paura.
 
Vorremmo sopportare tutto. Se non riesco a sopportare tutto allora è colpa mia. È colpa mia se non ce la faccio. Devo riuscire a fare tutto altrimenti sono inadeguato.
 
Si tratta del terrore di non essere all’altezza delle proprie aspettative a livello immediato nelle performance che l’individuo sente di dover offrire, ma che pretende anzitutto da se stesso. Si sente la necessità di rispondere positivamente alla paura di non riuscire a reggere la pressione.
 
Rispetto alla costruzione della nostra realtà che tendiamo a sopportare, c’è qualcosa di troppo che tendiamo a non vedere. Non si tratta di alternative, ma del non cercare di risolvere quel punto che viene eliminato rispetto al prendere decisioni efficaci per la propria vita. Allora ciò non vuol dire proporre qualcosa di alternativo in contrapposizione a questo, ma il riferimento è alla stanchezza che ciò che si è appena indicato comporta.
 
La filosofia rimane in quel punto che viene eliminato rispetto all’essere funzionalmente rivolti a un obiettivo. La filosofia è un esercizio della stanchezza. Questa stanchezza è ciò che si sottrae all’iperattività della comprensione.
 
Si tratta della pazienza di far venire le cose a sé. Si tratta, rispetto alla positività del fare e del voler fare e risolvere ad ogni costo qualcosa (al volerlo estirpare), di un punto di irrisoluzione che apre lo spazio ad un intervallo. Quest’intervallo è quello del no grazie, del rifiuto, del non rispondere sempre immediatamente alle sollecitazioni. Si tratta di qualcosa di fattivo, ma che non è lavoro.
 
Lasciar esercitare il punto di irrisoluzione della nostra soggettività è legato a non vivere la stanchezza come un problema ma come qualcosa che cura. Ciò riguarda l’indugiare non su ciò che dobbiamo fare ma su ciò che ci circonda.
 
Quando si dice che bisogna fare presto perché altrimenti ci sarà la catastrofe, si sta andando in quella direzione lineare e iperattiva che taglia la complessità del reale. Mentre ciò che viene indicato qui riguarda il lasciarsi attraversare da un’attenzione diversa, a forme lente che interrompono la velocità della decisione iperattiva di chi è troppo preso dall’identità del proprio io. Queste forme lente sono le  forme della cortesia, le quali si sottraggono al dominio e al predominio.