Giuseppe Pirlo e il ricordo di una vita straordinaria
di Fonte: Edmondo Bertussi, "Bresciaoggi", 4 gennaio 2013

La vita dell'inzinese Giuseppe Pirlo, scampato al freddo, alla guerra, ai campi di lavoro e alle durezze della vita. Una serie di periezie che gli hanno consentito di giungere sino ai 90 anni, tutto secondo lui grazie alla Madonna del Castello

 
È partito da casa a Inzino di Gardone Valtrompia il 17 gennaio 1942 otto giorni dopo aver compiuto i venti anni: ha fatto i 21 sul Don, era a Nikolajewka il 26 gennaio del 43, nei due anni successivi prigioniero in un lager tedesco. Parliamo di Giuseppe Pirlo, «bocia» alpino classe 1922, sciatore, rocciatore e radiotelegrafista, caporal maggiore nella compagnia comando del «Vestone»,6° Alpini, divisione Tridentina.
 
Della partenza ricorda quel giorno di neve quando coi coscritti di leva si trovò al Santuario del Castello, su nella valle del vorticoso Re che muoveva magli per le «caèce», i lunghi chiodi squadrati battuti alla forgia che hanno dato il nome (caicì) ai paesani della antica Pieve millenaria: dopo la messa ricevettero una medaglietta con in rilievo l'effige e nome della venerata Madonna col Bambino di Inzino.
 
Apre il cassetto fruga tra carte e fotografie, la trova: è ancora appesa alla catenina che ha sempre portato al collo in Russia assieme al piastrino di rame con la sua classe, numero di matricola, compagnia e nome: «1922-27523 (43) Pirlo Giuseppe di
Giuseppe e Gatta Domenica Gardone Valtrompia Brescia».
 
Spiega che permetteva il riconoscimento di vivi e morti in guerra e poi di dispersi e sepolti nei cimiteri lontani dalla Patria. Una pausa pensosa e aggiunge: «Mi ha salvato la Madonnina del mio paese». Parla seduto dietro il tavolo, scrivania e tutto il resto della stanza ufficio della sua bottega artigiana: due locali semplici rimasti come una volta a cui si arriva salendo nella stretta di vicolo Bolognini, che dirama sulla sinistra di via Zanardelli nella Gardone storica e armiera.
 
Lui è lì mattina e pomeriggio senza saltare un giorno: a quasi 91 anni lavora ancora, famoso per qualunque lavorazione e riparazione sui fucili e ne realizza ancora alcuni nuovi, su commissione come ha sempre fatto. In pratica lo fa da quasi ottant'anni. È il più vecchio armaiolo d'Italia in attività, titolare della sua «Armeria San Giorgio» fondata nel 1953. Chi ama vedere sul ferro la «limata storta», prova della lavorazione a mano lo cerca ancora: il suo laboratorio è un porto di mare per clienti vecchi e nuovi.
 
«Se non fossi un pò nascosto e fuori mano starei fresco». Clienti anche famosi ed importanti come William Childs Westmoreland, comandante delle forze armate americane che condusse le truppe nella Guerra del Vietnam: sulla grigia parete campeggia la foto di Sames Towerj comandante nato a Vicenza con lui ed il fratello Piero. Clienti affezionati.
 
Mentre fa osservare un suo raffinato Holland-Holland costruito 60 anni fa racconta che l'aveva realizzato per un medico di Genova che dispose nel testamento, se nessun famigliare lo usava, di riportarlo al suo amico armaiolo: e lui lo ha ricomprato. Ma torna subito a quel 17 gennaio del 1942. La prima tappa fu a Gargnano: soffriva i tratti autoritari dèi «veci» e fece, consigliato dal suo direttore alla Fabbrica Armi Esercito, il corso sciatori al Tonale, rocciatori a Merano e poi di radiotelegrafista.
 
«Durante l'interminabile marcia verso il fronte avevo la fortuna di caricare lo zaino sul mulo che portava le cassette con l'attrezzatura di collegamento radio e telefonico ma terribile fu un attacco dei russi: ci salvammo in meno di quaranta della compagnia. Ci ritirammo. Il battaglione fu ricostituito. I tedeschi avevano sfondato verso Stalingrado. "Andiamo là", dicevanogli ufficiali.
 
La Tridentina si schierò sul Don». «Radiotelegrafista ero al comando a Podgornoje col maggiore Enrico Bracchi: dovevo garantire i collegamenti con i reparti acquartierati sul Don nei rifugi scavati tutti sottoterra per difendersi dai continui bombardamenti, li raggiungevamo con i 50° sotto zero. Per il mio compito sapevo tutto, la tregenda in arrivo: nel Vestone e Valchiese c'erano compaesani, valtrumplini, valsabbini. Ero tentato di avvertirli confidarmi, mi mordevo la lingua pensando che sarebbe stato un colpo per il morale».
 
«Il 17 gennaio ’43 dopo un terribile bombardamento di katiuscia erano saltati i collegamenti: con un sergente fummo inviati sulla linea avanzata per ripristinarli. Quando verso sera stavamo completando il lavoro arrivò alle 17 e 30 l'ordine della ritirata». Bracchi lo fece caricare su un’autocarretta con tutte le attrezzature: viaggiò la notte, i piedi fermi. Quando scese gli scarponi erano gonfi, i piedi scoppiati nel congelamento. Ebbe la fortuna di trovare un paio di valenki, gli stivali di feltro russi che si rivelarono, la sua salvezza. Racconta di Nikolajewka.
 
Era per sua fortuna, rimastoper il ruolo col comando del VI, col colonnello Paolo Signorini che il 26 gennaio ’43, sfondava l'accerchiamento russo. Durante la battaglia stava steso a terra sulla discesa verso la ferrovia trincerata dai russi,vicino alla sua cassetta di radiotelegrafista: chiamava gli amici accanto che non sparavano perchè erano morti. Parla bene dei russi, delle donne.
 
Ricorda il villaggio durante la lunga marcia verso Rostov dove il tenente medico li fece ospitare per alcuni giorni nelle isbe di un villaggio. Arrivavano la sera i partigiani e rispettavano gli italiani: chiedevano in ricordo le stellette che per tradizione alpina si mettevano sulle cinture a contare i mesi di naia.
 
Poi le centinaia di chilometri fino a Rostov, la tradotta da Gomel, l'arrivo a Udine, l'ospedale dove il maggiore medico voleva amputargli i piedi. Si oppose un tenentino, lo curò, li salvò. Da Udine se ne scappò il 19 marzo giorno del suo onomastico di San Giuseppe con le stampelle dopo essersi procurato vestiti borghesi: riuscì ad avvertire i suoi dell'arrivo alla Pesa di Inzino, la trattoria con l'unico telefono del paese.
 
Poi come tutti un breve periodo a casa, l'invio al colle Isarco con la Tridentina, l'8 settembre, i tedeschi che fanno tutti prigionieri, il lager. Fruga fra i documenti: mostra la radiografia al torace che gli salvò la vita ed il «Vorlaufiger Fremdenpass» del Deutsches Reich del lager di Meiningen (Turingia), l'ultimo dopo altri campi di lavoro, datato 15.4.44.
 
Scappano in 5 a marzo del 1945. Faranno 1000 km a piedi: al Brennero passano il confine corrompendo le guardie tedesche coi marchi trovati per strada, poi Bolzano, Passo della Mendola, Breno, accompagnato da una donna partigiana, e da lì il passaggio in auto fino a Lovere di un ufficiale delle FiammeVerdi, il loro traghetto a Pisogne, l'arrivo il 24 aprile a Gardone già liberata.
 
Mostra la Croce di Guerra, l'attestato d'onore per la campagna di Russia nel battaglione Vestone. Sono i fatti emblematici di una vita straordinaria, senza dimenticare la sua bella famiglia, i quattro figli tutti laureati che gli ha dato la Rosa Tanghetti sposata nel 1950, persa quasi due anni fa che gli ha fatto compagnia per sessant'anni.