La logica è sempre violenta
di Alberto Cartella

Il filosofo saretino torna su alcuni suoi precedenti articoli per spiegare come essi siano strumento di un costante dialogo critico con se stesso, spunti di quella rete che ogni volta spinge ad argomentare

 
Mi sono accorto che il mio intento in alcuni punti degli articoli precedenti potrebbe essere stato frainteso in senso moralistico o paternalistico. Gli articoli che ho scritto non pretendo che siano necessariamente spunto di discussione per gli altri, ma posso dire che sono un costante dialogo critico per me stesso e hanno valore per me proprio per questo.
 
Non rimangono lì come un sapere accumulato che serve al mio narcisismo e al mio compiacimento, ma sono uno spunto per impegnarmi nel correggere, riscrivere e modificare le mie argomentazioni. Esse sono come una rete, la quale deve tenere secondo trasformazioni e discontinuità feconde da condividere con altri.
 
Per distanziarmi dal suddetto fraintendimento vorrei prendere in considerazione la rete, il sottosuolo di ciò che mi ha spinto in maniera discontinua a scrivere quello che ho scritto.
 
Ciò che tiene insieme la rete è uno scivolamento dal sistema del giudizio. Questo vuol dire che ciò che ho scritto non intendeva salvare qualcosa verso il quale bisogna avere fiducia. La finitudine alla quale facevo riferimento negli articoli precedenti non era intesa nel senso che tutti dobbiamo morire e che la morte è qualcosa che tutti abbiamo in comune.
 
Considerando questa comunanza della morte, ovvero il nichilismo, siamo portati ad assumere un intento moralistico e paternalistico: ci si convince che bisogna avere una fiducia totale nell’altro. Questo è proprio ciò che non voglio sostenere. La fiducia totale nell’altro assume declinazioni aggressive e violente.
 
La finitudine a cui facevo riferimento è una finitudine sprofondante, non volta verso il trascendimento nella glorificazione. Non è qualcosa come prendere atto che tutti muoiono e allora è il caso di rivolgersi altrove. Finitudine sprofondante in quanto è legata a un movimento statico, costitutivo in cui vuoto e pieno pulsano insieme simultaneamente.
 
Ciò non vuol dire che si passi da una condizione di vuoto totale a una condizione di pieno totale. Il pieno totale è qualcosa di violento e legato al giudicare gli altri, etichettandoli e tagliandoli da uno spazio di discussione. La logica è sempre violenta. I concetti sono delle armi che incastrano l’altro in una camicia di forza che non è sua.
 
Il razzismo del regime nazista è la consequenziale applicazione della logica in un ambito di vita. Si tratta di un'equazione in cui identifico un essere umano che non conosco, ma non esaurisco il suo essere. I capi nei Lager erano dei ragionieri e la logica consisteva nella razionalizzazione della fabbrica di morte.
 
C’è qualcosa che si sottrare alla logica, anche se spesso è in costellazione con la logica ed è proprio questa costellazione che rende mobili. Ovvero tutto ciò non vuol dire che ci si debba opporre alla logica. Il vuoto totale invece è follia, una fissazione autodistruggente. Ciò a cui mi riferisco non sono queste due cose (il vuoto totale e il pieno totale), ma è il vuoto e il pieno che stanno insieme strutturalmente in una sfasatura. Quest’ultima è costitutiva della soggettività ed è legata a un senso di perdita.
 
Ciò che si è perso non ritorna, è il non realizzato che non torna in maniera cosciente, ma rimane perdita. Il riferimento è a ciò che resta di ciò che si perde. Ciò che è perso non torna e il senso di perdita è vago. In ciò che noi selezioniamo e a ciò a cui noi diamo significato per la nostra vita c’è qualcosa che viene perso irrimediabilmente e che non fa parte di ciò che è funzionale alla nostra identità.
 
Lo spazio della politica è proprio qui, in ciò che ci restituisce al nostro peso corporeo e che non parte dalla comunanza della morte per poi fidarsi totalmente dell’altro entrando in una logica di sacrificio.
 
Ci si sacrifica all’altro quando ci si fida totalmente di lui. Lo spazio della politica sta nell’includere ciò che è stato scartato dal sistema del giudizio e contemporaneamente nel farlo esplodere; si tratta di una implosione-esplosione virtuale che non sta nell’ordine del possibile ma del reale.
 
Rimane un paradosso non risolto che siamo stati formati a cercare di risolvere, cioè tentiamo di dimenticare ciò che si perde. Ma il politico sta proprio nel fare un passo indietro rispetto a questo aspetto della nostra formazione.