La radicalità del filosofare
di Alberto Cartella

La filosofia non è strumento verso un sapere assoluto ma l'umile capacità di essere indirizzati verso un altrove che ha a che fare con l'ignoto dello sguardo. Perché il pensiero si annida in ogni situazione e in ogni luogo. D'altra parte Spinoza era un tornitore di lenti

 
La radicalità del filosofare è il senso proprio di ogni uomo, e solo certi uomini sono attraversati dal desiderio particolare di essere per gli altri l’incontro che li desta alla filosofia.
 
Chi sceglie una laurea in Filosofia non dovrebbe cadere nell’ambiguità che ruota intorno alla filosofia, intendendo questo sapere una scienza assoluta o una visione del mondo. Dovrebbe avere l’umiltà che deriva dalla coscienza che non si raggiunge un sapere assoluto, ma che si pensa e che si cerca mantenendo vivi quegli stati d’animo che aprono alla pericolosità del filosofare.
 
Chi sceglie filosofia sente come suo compito quello di tener desto negli altri uno stato d’animo fondamentale tramite il quale essi possono tener presente la loro finitezza che si muove tra l’essere sempre calati in una situazione e tuttavia l’essere assenti, l’essere sempre spostati altrove, che non vuol dire distratti.
 
Questo altrove ha a che fare con il non realizzato, con l’ignoto dello sguardo. Nello sguardo frontale non ci sono ricostruzioni, non c’è un aggiustamento della visione che tende alla visione giusta, ma vi è una sospensione, un momento di esitazione. Esitare mette in crisi la finalità dell’azione. C’è una cesura, uno scarto, una faglia tra la percezione e l’azione.
 
Si sta parlando qui della forma interrogativa posta all’inizio dell’azione, la quale è costitutiva di ognuno di noi. La filosofia è proprio questo: è un residuo dell’evento nell’evento (Gilles Deleuze). Questo residuo è il non realizzato, è il momento esitante; esso è caratterizzato dalla virtualità, anche se non è dell’ordine del possibile ma del reale. Esso è un virtuale che fa parte del reale pur non essendo nella categoria della realizzabilità.
 
Nell’intreccio tra psicanalisi e filosofia vi è l’ascolto di questa esitazione che genera il fantasma di un’azione che fa parte di ciò che siamo. Il vissuto di ciò è il sogno, la soglia del sogno. Pensiero e cognizione non sono la stessa cosa. La cognizione persegue sempre uno scopo definito, che può essere promosso da considerazioni pratiche come dalla “curiosità oziosa”; ma una volta raggiunto tale scopo, il processo cognitivo è finito.
 
Il pensiero, invece, non ha né una fine né uno scopo fuori di sé e non produce nemmeno risultati. È un inciampo che apre un’interruzione fra la cognizione e l’azione. Può accadere che una conversazione possa avere più densità di pensiero che migliaia di trattati. Il domandare inquietante e pericoloso del pensiero è inutilizzabile per il funzionamento della nostra società, che la filosofia ha contribuito a far nascere.
 
Nel mondo della tecnica dove ogni cosa, anche l’uomo, è un pezzo di riserva, bisogna continuare a correre per lo sviluppo tecnologico e per l’intensificazione delle energie. La ricerca non deve più trascendere i confini delle scienze, ma solo continuare ad andare avanti, dimenticando possibilmente il pensiero, che rischia di inceppare il meccanismo (Gilles Deleuze e Felix Guattari).
 
Il pensiero se non è semplice memoria reverenziale dell’origine, se non è solo il luogo innocuo di raccolta della tradizione occidentale,  non solo è inutilizzabile, ma anche “pericoloso”. Chi è attraversato dal desiderio della filosofia e gli presta ascolto sa questo; chi non cerca di reprimere quei punti di crisi e di indecisione e si assume il compito di renderli presenti agli altri, rischia l’emarginazione.
 
Ciò che è importante è non perdere mai il contatto con le situazioni. È necessario (anche per chi si occupa di filosofia) inserirsi nel mondo globale della tecnica, trovare un lavoro che permetta di collaborare e ricevere sostentamento da questo sistema tecnologico. Per il “pensiero” non c’è una grande differenza tra il ruolo professionale del docente universitario o liceale, che conserva la memoria della tradizione, e qualsiasi altro ruolo della nostra società: ambedue possono contribuire a lasciare celato il nostro domandare profondo.
 
Ci sono uomini della strada che passano per ignoranti sprovveduti e un po’ svaniti che invece portano nella carne i segni di un pensiero autentico e genuino. Quest’ultimo è possibile trovarlo di più in uomini così che nelle maschere tragiche di molti laureati o professori fregiati di tre o quattro titoli professorali.
 
La colpa non è dell’università, ma ognuno è responsabile della propria distrazione. L’università è un invito alla lettura e alla ricerca; se si riducesse alla trasmissione di sapere sarebbe di una sterilità disarmante. Il pensiero e il destare gli stati d’animo fondamentali devono rimanere ai margini.
 
Seguendo quel fanciullo che è in noi, e che non si acquieta nel ritmo della vita di adulti, battendo il passo di un domandare inutilizzabile, accade che tutto può far pensare. Per esempio la pubblicità, che se di fatto mira a ridurci a degli zombi che comprano merci per continuare l’intensificazione della produzione, può nascondere nei suoi margini piccole scene che parlano d’altro.
 
Perché alla fine cos’è il successo? È importante l’umiltà dei lavoratori oscuri e anonimi che non dimenticano il silenzioso lavoro del pensiero. Vi è un legame fecondo fra linguaggio e produzione segreta: la letteratura sotterranea che nasce nelle ore di ozio, spesso dopo una sinistra giornata spesa in negozio, in fabbrica e in ufficio. Spinoza faceva il tornitore di lenti.
 
Questa considerazioni sono state rese possibili anche dal guadagno di pensiero che ho ricevuto da Gilles Deleuze, Patrizia Cipolletta, Ernst Bloch, Martin Heidegger, Hannah Arendt e Riccardo Panattoni (insegna filosofia morale all'Università di Verona e attualmente la sua ricerca è incentrata sul rapporto tra lo sguardo e lo statuto delle immagini).